I principi di Napoli nella battaglia di Montecatini del 1315

Articolo di Armando Giardinetto

Tra le numerosissime battaglie medievali va certamente ricordata quella di Montecatini del 1315. Tale cruenta e sanguinosa campagna militare è stata combattuta sullo sfondo dell’incessante lotta tra guelfi e ghibellini. Pare, secondo qualche timida fonte, che anche Dante Alighieri vi avrebbe partecipato o, quanto meno, avrebbe soggiornato nel castello della cittadina in attesa della fine dei combattimenti, sperando nella vittoria della parte ghibellina che – con il suo protettore Uguccione della Faggiola – gli avrebbe permesso di ritornare nella sua città natale dopo la cacciata in esilio avvenuta 13 anni prima.

In epoca medievale Montecatini, di fazione guelfa, era costituita dalla rocca che tutt’oggi svetta nella Valdinievole a metà strada tra Lucca e Pistoia, ma rappresentava soprattutto un avamposto strategico in rapporto a tutte le altre città vicine per il controllo dell’intera Toscana. La valle circostante, invece, era caratterizzata da melmose paludi ed acque pestifere, ideale per creare imboscate e trappole, ma anche terribili e misteriose dal momento che gli abitanti della zona vi trovavano spesso la morte. Solo qualche decennio più tardi si iniziò a pensare ad alcune di quelle acque come benefiche, ottime per la salute. Per questo ed altri motivi l’intero territorio era continuamente conteso da varie fazioni militari, per cui la popolazione veniva esposta in continuazione non solo alla malaria e alle varie epidemie, ma anche alle guerre che si susseguivano.

Nella battaglia di Montecatini si scontrarono due eserciti potentissimi, ma di numero di soldati nettamente diverso tanto che, sin da subito, tutti credettero di conoscere le sorti dei vinti e dei vincitori, tuttavia gli esisti andarono contro ogni aspettativa. Nella fattispecie se da una parte – con un esercito che contava dai 20.000 ai 30.000 fanti più 4000 cavalieri – era schierata la fedele ghibellina Repubblica di Pisa con quella di Lucca – passata sotto l’egemonia pisana da poco più di un anno – entrambe appoggiate da mercenari tedeschi che, ben stipendiati dall’impero di Enrico VII di Lussemburgo, furono l’effetto a sorpresa per i fiorentini che proprio non se lo aspettavano; dall’altra parte – con un esercito che contava dai 30.000 ai 60.000 fanti più 5000 cavalieri – era schierata la guelfa, potentissima e ricchissima Repubblica di Firenze con quella di Siena, Prato e Pistoia, tutte appoggiate dal Regno di Napoli degli Angioini.

I personaggi centrali che si mossero in questo scacchiere militare furono, per la parte ghibellina, il valorosissimo condottiero e podestà di Pisa Uguccione della Faggiola che, con tale battaglia, segnò l’apice del successo ghibellino toscano. Egli fu accompagnato dal condottiero e stratega Castruccio Castracani che poi sarebbe diventato duca di Lucca e più avanti nel tempo, quando avrebbe condotto altre vittoriose battaglie, sarebbe stato reputato da Machiavelli come “Splendido condottiero, non inferiore né a Filippo di Macedonia, né a Scipione di Roma”. Addirittura una leggenda narra che nella valle di Montecatini, nelle notti di plenilunio, ancora oggi riecheggi la voce del Castracani che sprona i cavalli all’attacco.

Per la parte guelfa, invece, il re di Napoli Roberto d’Angiò inviò, in aiuto a Firenze, suo fratello, il giovanissimo e affascinante principe Pietro che, per il suo coraggio, la sua giovinezza e bellezza ma soprattutto per il suo carattere, venne soprannominato Tempesta. Quest’ultimo, inoltre, qualche tempo prima, era stato designato vicario di “Toscana guelfa” e si distinse nei combattimenti contro le forze ghibelline, guadagnandosi la stima della regione.

In seguito il re, volendo contribuire di più in termini militari, mandò un altro suo fratello, il principe Filippo che a sua volta venne accompagnato dal figlio, il principe Carlo di Acacia.

La scintilla che portò allo scoppio della battaglia fu la diatriba che già esisteva tra Pisa e Firenze sull’egemonia di Lucca. Come si è detto sopra, Uguccione riuscì a occupare Lucca grazie all’aiuto del Castracani e questo fece arrabbiare non poco i fiorentini che a più riprese tentarono di ribellarsi. Questo portò il Della Faggiola, il 2 maggio 1315, a muovere con veemenza il suo esercito su Montecatini con l’obiettivo di guadagnare quanto più territorio, sottraendolo ai guelfi. Firenze, vedendo i numeri in campo, non si preoccupò molto, tuttavia la sorte riservò per loro terribili e inaspettati risultati. La rocca, con le sue mura quasi inespugnabili, venne accerchiata dai pisani che la presero d’assalto, ma essa riuscì a resistere per molte settimane. Dopo un mese e più di accerchiamento, Uguccione fu chiamato in patria per una disputa scoppiata nelle vie cittadine che doveva essere sedata, fu in quel momento che i montecatinesi, approfittando dell’assenza del temibile comandante, ebbero una prima vittoria, seppur breve, sui pisani, incendiando, dall’alto della rocca, i loro insediamenti a terra. Più tardi, il 13 agosto, l’esercito dei principi napoletani arrivò a Fucecchio per poi portarsi e accamparsi nei pressi di Monsummano e lì si prepararono allo scontro. Uguccione, tornato dalla sua città, prese coscienza che Montecatini non era ancora caduta, decise allora di adottare una strategia importantissima, cioè quella di portare i montecatinesi allo stremo delle forze, facendoli morire di fame e di sete: “Questa terra era in quel tempo un castello fortissimo, capace di mille abitatori e solo espugnabili per la fame. I monti appennini gli stanno a Settentrione, a Levante ha il castello di Serra Valle, col piccolo fiume o piuttosto torrente Nievole in mezzo, la via Pistoiese lo circonda a Mezzogiorno ed a Ponente riguarda il piano di Massa” (da Istoria della città di Pescia e della Val di Nievole, 1784). Chiusi nella rocca ormai da lunghissime settimane, affamati e assetati, dovevano pur soccombere alle truppe pisane, ma questo non accadde mai. In quei giorni caldi e afosi d’estate, nella piana tra Monsummano e Borgo a Buggiano, stanchi di aspettare che le trattative si facessero concrete, i soldati dell’esercito angioino decisero di avanzare verso Montecatini per cercare lo scontro che effettivamente ebbe luogo. In un primo momento alcuni battaglioni pisani vennero sconfitti e fu solo allora che i guelfi riuscirono ad aprire una strada verso una delle quattro porte della rocca per farvi entrare decine di asini con dei sacchi pieni di farina, mettendo fine quanto meno alla fame degli abitanti. Seguirono vari scontri che si protrassero fino al 29 agosto quando con un‘ultimissima lotta corpo a corpo molti fiorentini e i loro alleati morirono combattendo valorosamente. Tra queste eroiche vittime vi fu proprio il principe Carlo di Acacia e sul suo cadavere si consumò la vendetta del ghibellino Ranieri Donoratico il quale, fattosi armare cavaliere, posò il piede sui resti dell’Angioino e con tale gesto vendicava la morte del padre Gherardo che, nel 1268, insieme a Corradino di Svevia, venne decapitato a Napoli da Carlo I d’Angiò, bisnonno di Acacia al quale venne dato un funerale con tutti gli onori così come fu fatto per il figlio di Uguccione, Francesco della Faggiola, anche lui vittima della battaglia. Altri vennero trucidati, altri ancora annegarono nel Padule di Fucecchio come accadde molto probabilmente a Tempesta che risultò disperso.

L’esercito guelfo arretrò e Uguccione dispose l’assedio finale: distribuì gruppi di soldati davanti alle quattro porte della città fino alla capitolazione dei montecatinesi che avvenne il 31 agosto. A questo punto era chiaro a tutti che i ghibellini avevano avuto la meglio!

Molti altri fiorentini furono fatti prigionieri e di questi non tutti sopravvissero. Di fatti, durante la marcia trionfale di Uguccione in Pisa, alcuni vennero pubblicamente umiliati e poi uccisi; altri furono rilasciati solo dopo ingente riscatto chiesto a Firenze che, per liberare gli ostaggi, impoverì quasi del tutto le casse cittadine. Il principe Filippo d’Angiò ebbe, invece, una sorte migliore: febbricitante già a Monsummano, non partecipò mai ai combattimenti e riuscì a scappare, rifugiandosi dentro le mura di Firenze. Può essere che la sua assenza nelle decisioni delle strategie militari, in quanto obbligato a letto con febbre alta, abbia segnato la sorte peggiore per i guelfi.

I frutti raccolti per i ghibellini importanti: la figura di Uguccione divenne ancor più potente e temibile, ma anche avida e crudele tanto che, di lì a poco, i pisani e i lucchesi cominceranno ad acclamare Castruccio Castracani; molte città, forse per paura di vivere la stessa sorte di Montecatini, da guelfe si avvicinarono alle idee ghibelline come avvenne per Pistoia, Siena e Arezzo; Firenze dovette fare i conti con le proprie debolezze, realizzando il fatto che le difese andavano rafforzate; la battaglia stessa di Montecatini venne presa in considerazione già nelle cronache successive al 1315 da storiografi, poeti e scrittori, conservandone la memoria non solo per le strategie militari, ma soprattutto per il sangue dei molti morti che andò a colorare di rosso le acque del Padule di Fucecchio, già torbide e paludose al tempo del passaggio di Annibale nella sua marcia verso il Sud Italia. In merito all’esercito napoletano sotto la corona di re Roberto d’Angiò, in continuo contrasto con i ghibellini, esso risultò poco organizzato, senza strategie importanti, quasi inefficace.

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