A mezzo secolo dal suo suicidio, avvenuto il 26 marzo del 1969, a soli trentadue anni, lo scrittore americano John Kennedy Toole, ci insegna che il gusto per il brutto è una malattia comune a tutte le epoche. Dal suo fallimento come scrittore, riconosciuto soltanto dopo la morte, Toole trae la forza per osservare e analizzare il marcio che ci circonda e dargli un nome, Confederacy, renderlo ridicolo, abbattendo le fondamenta apparentemente solide su cui lo abbiamo fondato, anche dette: benessere economico, sicurezza di coppia, stabilità lavorativa, e in tanti altri modi variopinti.
La sua creazione geniale si chiama Ignatius J. Reilly. Grazie a questo omone rozzo e anticonformista, John Kennedy Toole riesce a infondere nel lettore il senso dell’assurdo che muove ogni singolo meccanismo del sistema malato cui facciamo parte: “Cercasi elemento dinamico, fidato, portato ai contatti umani. Signore santo, vogliono un mostro!” Ignatius permetterà a Toole di vendicarsi e, forse, di posticipare il suo suicidio, se è vero che tutti quelli che si ammazzano, non lo fanno all’improvviso, ma dopo averlo premeditato a lungo. A nessuno piace morire ammazzato, se si riesce a trovare un’altra soluzione, è meglio.
Ignatius J. Reilly rutta e scorreggia senza guardarsi intorno; tratta sua madre come una schiava, con odio, rivelando tra le righe che, come tutti i rapporti fondati sull’odio, anche il loro è alimentato dal fuoco di un amore malato; riesce a manipolare colleghi e capiufficio facendoli ribollire nel loro stesso ego; e, infine, riesce a dimostrare che il vero motivo del nostro fallimento come specie, è il crescente gusto per il brutto, soprattutto nell’arte e nella letteratura.
Per cui si fa critico del brutto, non si perde neanche uno dei film scadenti dati al cinema ogni settimana e insulta attori e regista ad alta voce, diventa lo zimbello della comunità, ma sa, in fondo, che quella stessa comunità un giorno riconoscerà il suo genio. Oggi, infatti, Ignatius è diventato il simbolo di New Orleans, città in cui il romanzo che lo vede protagonista è ambientato.
Il titolo del romanzo, valso a Toole un Premio Pulitzer postumo, è A Confederacy of dunces, ripubblicato recentemente dalla Marcos y Marcos, col titolo Una banda di idioti. La parola italiana “banda” però non riassume nella sua totalità il senso che l’autore ha voluto dare alla storia con la ben più sottile definizione di Confederacy, forse meglio tradotta con “cospirazione”, l’intesa malvagia tra gli idioti che si riuniscono e isolano il cosiddetto genio, mai amato dai suoi contemporanei, a causa dell’antica legge sociale che impone paura a chi ignora. “Io sono un anacronismo vivente,” dice Ignatius/Toole, “questo la gente lo capisce e mi diventa ostile…”
Confederacy è anche una metafora, un chiaro riferimento alla Confederazione degli Stati Uniti. La lettura di opere geniali come questa mi dà una speranza, mi fa illudere che prima o poi ci risveglieremo da questo intorpidimento imposto dall’alto e riconosceremo l’immondizia che ci danno da mangiare: perché l’immondizia sa davvero di immondizia. Soltanto leggendo vera letteratura, quella fatta di vita, di morte talvolta, come in questo caso, potremo finalmente riscoprire il gusto per il bello.