Stiamo attraversando una rivoluzione o rivoluzioni senza precedenti «che stanno rimodellando le nostre vite a ritmi travolgenti» (Richard Baldwin, Rivoluzione globotica. Globalizzazione, robotica e futuro del lavoro, Il Mulino). La civiltà della globalizzazione e della robotica da decenni è analizzata da antropologi e sociologici. Viviamo una «crisi di sistema» che investe le nostre vite e che ci fa sperimentare nuovi modelli di comportamenti, nuove gerarchie di valori (e dis-valori), nuovi saperi, ec. Una «crisi di sistema» che colpisce innanzitutto la nostra specificità d’essere umani, i nostri linguaggi, comportamenti, ecc. A differenza di Prometeo, che letteralmente significa «»colui che vede in anticipo», non siamo in grado di affermare dove arriverà la civiltà della tecnica, della robotica i cuoi confini appaiono illimitati. In questo nuovo rapporto tra tecnica, natura e uomo – osserva con acume il professore Umberto Galimberti – viene meno all’uomo d’oggi la capacità e/o potenzialità di anticipare e anche di immaginare gli effetti ultimi del suo fare.
Per aiutarci a comprendere al meglio i cambiamenti culturali che attraversano la «storia integrale dell’uomo» abbiamo dato la parola al professore Francesco Pira, docente associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università degli Studi di Messina e un esperto in «comunicazioni digitali». Tra i suoi numerosi, articoli, libri, segnaliamo l’ultimo volume Figli delle app, edito da Franco Angeli, ove, in un percorso che attraversa generazioni, studia l’«evoluzione dei modelli comunicativi di preadolescenti e adolescenti prima e dopo l’avvento delle nuove tecnologie e la digitalizzazione della società».
D.: Da decenni, viviamo anni rivoluzionari: nel 1989 da Oriente a Occidente: piazza Tienammen e il muro di Berlino; il 6 agosto 1991 nasce il Worl Wide Web ecc. Viviamo anni sconvolgenti, innovazioni scientifiche e tecnologiche impensabili fino a pochi decenni. Assistiamo a cambiamenti (sociali, climatici, ecc.) che si succedono con una vertiginosa, preoccupante velocità che stanno trasformano la nostra specie. Siamo nel mezzo di una tempesta e, parafrasando il messaggio dantesco, non nel mezzo di un cammin che porta ad una salvezza. Ai primi di settembre uno degli intellettuali viventi più importanti pubblicherà un piccolo libro ma da un titolo molto significativo: «Svegliamoci». Professore Pira qual è la condizione, oggi, di noi essere umani? Che genere di creature stiamo diventando? Da decenni stiamo vivendo una crisi non solo economica ma sociale ecologica. Come dare ascolto al pensiero che forse è l’unico a poterci salvare?
Pur essendo un inguaribile ottimista non è facile oggi leggere la società senza porre i necessari accenti su quanto ci sta accadendo. Non voglio affermare che l’evento pandemico sia stato l’unico elemento scatenante e che, in questo breve lasso di tempo, abbiamo assistito ad una trasformazione improvvisa e rapida dei modelli di costruzione del nostro agire sociale. Ma penso che questa contingenza abbia fatto emergere in modo, quasi esplosivo, processi che sono in atto nella società da tempo come conseguenza dell’impatto delle tecnologie in tutti processi sociali. Del resto, il mondo globalizzato, e ormai travolto dalla tecnologia, pensava di essere invincibile, nessuno avrebbe immaginato che le sorti del pianeta sarebbero totalmente cambiate per un virus killer la cui provenienza è ancora ignota. Assistiamo alla proliferazione di fenomeni sempre più estremi e caratterizzati da comportamenti violenti e che riguardano in modo particolare il mondo degli adolescenti, basti pensare al cyberbullismo, al bullismo, al sexting, al body shaming ecc. In tutti questi atti è ravvisabile in parte quello che potremmo definire un disimpegno morale e un’incapacità di relazionarsi con l’altro, vittime di quel falso potere che la disintermediazione sembra offrire. Certo dobbiamo svegliarci ma non aspettare che qualcuno lo faccia magari portandoci il caffè a letto. È una scelta di responsabilità e di coerenza. Inderogabile.
D.: Oggi i ragazzi e non solo vivono la loro inquietudine non più affidandosi al dialogo ma in un bisogno sempre più narcisistico di like e di velocissimi video su tik tok. Ma non sono solamente i ragazzi sempre più spesso in tutto ciò sprofondano anche gli adulti rimasti adolescenti. Cosa è successo in questi ultimi decenni? Perché abbiamo perso il valore della crescita?
I media e i servizi a essi collegati guidano il processo di costruzione identitaria all’interno di contenitori che si adattano alle richieste degli individui, con filtri e personalizzazione che conducono verso un appiattimento e verso la ricerca di risposte che seguono il principio di conferma. Si va verso una sempre più spiccata mancanza di riconoscimento dell’altro, l’individuo si allontana dall’impegno, dal sacrificio in virtù del raggiungimento di bene collettivo superiore. La contrapposizione tra impegno e disimpegno è sempre più forte, lo stiamo constatando anche durante questa pandemia. Ci siamo assoggettati alla privazione di ampi spazi di libertà personale per un breve periodo, ma oggi spinte opposte tra diverse concezioni dell’idea di libertà ci fanno vedere quanto alto sia il rischio del concretizzarsi di “un estremo disimpegno che rischia di condurre alla confusione tra il soggetto e l’individuo, a un egoismo sempre più diffidente, e in definitiva all’incapacità di levarsi per difendere la libertà del soggetto, quando è minacciata”, come ha sempre sostenuto Touraine. La disintermediazione ci ha illuso di poter agire senza regole, convinti di essere al centro, dotati di potere. Le regole sono invece un pilastro fondamentale, perché ci consentono di attuare un processo di interiorizzazione che porta anche all’evoluzione delle regole stesse, ma in un quadro condiviso e non in un Far West di sopraffazioni e disinformazione che manipola le coscienze degli individui, in particolare delle giovani menti in costruzione. Diventa fondamentale riflettere sul quale ruolo deve rivestire l’etica nella società digitalizzata, quali domande l’individuo è chiamato a porsi rispetto alla sua identità sociale e al suo ruolo nella comunità, consci come sottolinea ancora Touraine che “le domande più personali sono inseparabili dall’azione collettiva”. Ho molto apprezzato quanto ha scritto nei suoi testi, davvero appassionanti il professore di filosofia dell’Università di Berlino, di origine coreana, Byung-Chul Han, che nel suo libro “Come abbiamo smesso di vivere il reale” ci spiega appunto come abbiamo perso il contatto con il reale e esprime la necessità di tornare a rivolgere lo sguardo alle cose concrete, modeste e quotidiane. Le sole capaci di starci a cuore e stabilizzare la vita umana. Scrive: “Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il Cloud. Il mondo si fa sempre più inafferrabile, nuvoloso e spettrale.
D.: Oggi spopola e fa guadagnare un individualismo che tra like e violenza domina le nostre giornate, le nostre vite, le nostre anime alla deriva. Quanto e come la globalizzazione ha fatto lievitare, paradossalmente, l’individualismo? Quest’ultimo non sarebbe un termine opposto alla “creazione” di una casa, di un mercato unico? Ed invece……
Ci hanno spiegato che la globalizzazione era la grande occasione per contaminazione, conoscenza, riconoscimento della nostra e di altre identità. Poi invece questa impalcatura è crollata quando pezzi di popolazioni si sono spostate per guerre assurde o per fame nelle zone più ricche e industrializzate del pianeta. Quello che è accaduto lo vediamo giorno dopo giorno, ora dopo ora. Risulta evidente quanto urgente sia una battaglia per definire i valori pubblici nell’era della società delle piattaforme, in questo vi è una responsabilità politica che riguarda le istituzioni pubbliche che sono chiamate a contrastare il potere degli ecosistemi delle piattaforme. Senza di ciò continueremo a dover constatare l’inadeguatezza dei sistemi educativi rispetto alla velocità con cui evolve il mondo, in conseguenza sia dell’innovazione tecnologica che delle dinamiche macroeconomiche; ed alla crescente diseguaglianza nella distribuzione di capitale sociale e una sempre minore capacità di contribuire al suo sviluppo all’interno della società. Ripeto da tempo che stanno vincendo tutti gli ismi: i cattivismi, gli individualismi, gli egoismi. Ho avuto il privilegio di conoscere nell’Università di Messina, dove insegno, il sociologo e filosofo Edgar Morin, in una recente intervista su “La Lettura” del Corriere della Sera ha sottolineato come “L’individualismo, per esempio pur invocando giustamente la responsabilità che ognuno deve assumersi in quanto individuo, può esprimere anche un pericoloso egoismo. Stiamo assistendo al degrado della solidarietà come pieno riconoscimento dell’umanità dell’altro. Oggi ci sono troppe persone che soffrono la tragedia della solitudine. C’è una politica di solidarietà da sviluppare. C’è urgente bisogno di un enorme cantiere”. Mi preoccupa il fatto che nessuno si occupa di questo cantiere nonostante guerre e pandemie. Ed il paradosso pronunciato dal sociologo Zygmunt Bauman che la società più dotata di tecnologie è piena di solitudine. Si quella stessa società che aveva etichettato come liquida,
D.; L’individualismo e la crisi dei valori colpisce sempre più il linguaggio, la nostra caratteristica specifica di essere umani, sempre più povero, depauperato, senza misura, bistrattato. Gli studiosi affermano che quando si fa strame della lingua / linguaggio si fa strame di una civiltà? Perché la crisi colpisce il bene della parola?
Il cambiamento delle dimensioni tempo, spazio e relazione genera, da un lato una perdita di capacità di attuare processi educativi profondi in seno ai nuclei familiari, dall’altro modelli di somministrazione della conoscenza inadeguati creando un problema di perdita di autorevolezza che aumenta la frattura generazionale e sociale. Così la dimensione del capitale simbolico, con il suo portato di autorevolezza e prestigio si dissolvono nella vetrinizzazione esasperata della vita degli individui. Ci stanno orientando ad usare sempre meno la parola e sempre più emoticon, immagini, musiche. Tutto è veloce. Le parole peggiori vengono usate per offendere e non per unire o esprimere sentimenti positivi.
D. Avevamo iniziato con l’ottimismo ma il quadro non fa ben sperare…
Credo che il segreto sia da riporre nell’educazione delle giovani generazioni. Nell’invertire la tendenza. Non farsi orientare da algoritmi, intelligenza artificiale e piattaforme. Usare tutto con consapevolezza, ma non farsi usare. Nel mio libro “Figli delle App” provo a dare delle umili indicazioni: educazione alle emozioni, educazione all’uso consapevole delle nuove tecnologie e scuole per genitori che non conoscono i consumi mediali dei loro figli. Ma se continua il disimpegno e se chi deve “fornire” l’educazione si lascia trascinare dall’adultescenza (adulti che si comportano da adolescenti anche nell’uso delle tecnologie) allora la partita è persa. Non si può essere ottimisti.