(Ghiannis Ritsos, sembravi fatto apposta per noi, con qualche utile ritocco)
Due giorni dopo il grande circo traslocò. Scomparvero le gabbie dei cantanti, i tendoni, i cinque batteristi scalzi, le presentatrici, le ballerine che danzavano con grazia, i direttori artistici, i replicanti dei cantanti del passato. Il prestigiatore, quello che moltiplicava pani e pesci purché tutto andasse avanti, all’ultimo spettacolo sembrava triste, quasi non gli bastasse il miracolo compiuto, da gran seduttore di folle. Così le sette ballerine preferite del direttore artistico, la presentatrice di eventi, il coro delle voci bianche e il cantautore calvo, mettevano in scena un’angoscia lunare in riva al mare. Il funambolo parve il solo estraneo alla tristezza, indifferente, distaccato dal pubblico pagante e dagli invitati scelti, sempre pronti ad applaudire, a dire come canta bene quello, come canta bene quell’altra, come sono tutti bravi, quant’è bello il nostro circo in riva al mare. Il funambolo era veramente distaccato, camminava solitario su per aria, sul filo di scorta, guardando altrove, verso un punto a noi ignoto. Soltanto l’impavido domatore con il suo costume dorato sorrideva con allegria, condita di alterigia e narcisismo, come per dire lo vedete come siamo bravi, non siamo mica quelli di prima, noi cambiamo il verso delle cose. La sua lunga frusta schioccava maestosa e di tanto in tanto si abbatteva sulle prime file tristemente vuote, facendo cadere qualche pelo castano – dorato delle criniere dei leoni.
Se ne sono andati. Completamente vuoto il piazzale sul mare. Libero lo spazio. Le scogliere intorno respirarono e i gabbiani pure, le agavi spinose, i fichi d’india e le tamerici tirarono un sospiro di sollievo. Solo per terra restarono i buchi dei grossi picchetti e dei montanti che reggevano l’enorme palcoscenico. Il giorno dopo un po’ di nebbia vaporava ondeggiando sul bordo del piazzale come se avesse dimenticato lì il bianco costume di tulle d’una ballerina ritardataria. Per questo il postino se ne stava lì col naso in aria e si guardava intorno, non sapeva a chi consegnare l’ultima lettera senza destinatario. Se ne sono andati. Ci avevano stancato molto i megafoni, le luci, la moltitudine incoerente e assortita di colori e quel virtuosismo superbo e irresponsabile. Ci era venuta nostalgia di un po’ di cielo vuoto delle notti, della loquela monotona e sommessa delle stelle, dell’abbaiare d’un cane in riva al mare, di ciò che è uno tra la moltitudine, unico, integro, pure del ricordo misterioso e inspiegabile d’un funambolo. Se ne sono andati. E di colpo regnava la calma silenziosa d’un’estate profumata d’infinito. Una moltitudine di gente si radunava sul mare dalle piazze dintorno, dai villaggi marini, da tabaccherie e bar, da stazioni di posta e locande saccheggiate; una moltitudine di gente in sandali e pantofole, camicie hawaiane, giovani invecchiati adoratori d’un dio degli anni Ottanta, che non era il dio serpente, niente aveva a che spartire con un regista di mondo movie del passato, in questo luogo il cinema era al bando, non si poteva neppure nominare. Ho visto cose che voi umani non potete neppure immaginare: ragazzine allucinate, donne vestite di pallettes, sordomuti che riacquistavano l’udito, montanari selvaggi con agnelli sulle spalle, le galline li seguivano al passo, chiocciando, un uomo teneva una volpe ferita in braccio. Il grande circo avrebbe sanato tutti con la musica, senza tre manciate d’acqua santa sulla testa, i paralitici avrebbero camminato, i ciechi avrebbero visto, i sordomuti già balbettavano grazie. Allora, dalla vetta del monte più azzurro si vide la luna tartaruga a sei ali sorgere tutta d’oro e fluttuare solenne verso il funambolo, che splendeva camminando in equilibrio sulla corda residua, sotto la luna, con una superba destrezza che dissimulava il rischio e la fatica, persino il travaglio d’un’arte tanto pericolosa. E quei suoi movimenti, quasi oscillasse su due ali, con il popolo a dire cade non cade, cade non cade, si faceva canto immenso, invulnerabile, profondo, che colmava di fiducia la notte intera, e il tempo tutto, fino al futuro più remoto, che colmava di gioia persino il sonno di quanti già dormivano sotto le verande di legno, sui balconi, sulle terrazze o distesi sull’erba. Se ne sono andati. Resta la compagnia del domatore narciso, lo schioccare della sua frusta nel vuoto della notte sotto una pioggia di stelle cadenti. Se ne sono andati ma torneranno, sembra dire mentre allarga le fauci d’un leone docile come agnello, il suo sguardo luciferino non promette niente di buono, solo il ritorno, lo si comprende da un lento schioccare di frusta sulle prime file sotto il palco che sta perdendo pezzi nell’abbandono lunare della notte.