Benedetto Croce ha scritto: “Per conoscere l’Italia bisogna incominciare dalla sua storia”. Storia per noi vuol dire soprattutto dominazioni straniere, lotte, rivolte, servilismo, espedienti per salvarsi dalla povertà. In una parola: italianità.
Il concetto di italianità va ricercato soprattutto in letteratura. In quella dei grandi del passato glorioso del nostro paese, un paese unito nelle opere letterarie, tentativi di ricreare una comunità. I tre vate che hanno il merito di aver gettato le basi sono Dante, Petrarca e Boccaccio, le tre corone del Trecento. Nei secoli successivi, altri hanno attinto alle loro opere e perpetrato il tentativo di unire gli italiani sotto un’unica bandiera, culturale prima che politica, come concordano molti critici. Stefano Iossa in Res publica litteratorum scrive che “la letteratura è fondamentale per formare una coscienza nazionale attraverso un’esperienza condivisa di cui essa stessa definisce il perimetro”.
Ma quali sono i meriti di Dante, Petrarca e Boccaccio? Forse quello di aver usato una lingua comune, il volgare, che permettesse la comprensione delle opere a un pubblico più vasto e non solo ai dotti. Allo stesso tempo, la creazione di una élite letteraria, di “illuminati”, che si assumessero la responsabilità di diffondere la loro idea, in certi termini, democratica, di letteratura. Dante denunciava nel Canto VI del Purgatorio le lotte inutili che devastavano quel bel “giardin fiorito”, Firenze, una città-patria per lui. Petrarca gettava le basi di quel sentimento di protesta contro l’invasore, quello sdegno, quella fierezza di carattere mista a una “servile viltà”, come osserverà nel 1700 Vittorio Alfieri scrivendo dell’Italia illuminata e della responsabilità di diffondere la bellezza riposta ancora una volta nelle mani degli scrittori. E Boccaccio, infine, ebbe il merito di rompere quei tabù che imponevano in un’epoca ancora buia di parlare delle donne mettendo in risalto le loro doti intellettuali e la loro personalità, scrivendo un’opera che suscitò reazioni controverse nella critica del tempo, il De Mulieribus Claris. Forse un precursore di parità dei diritti, forse soltanto un po’ meno misogino dei suoi contemporanei.
Questo potrebbe essere un punto di partenza per parlare di italianità, un termine difficilmente traducibile in altre lingue. Mai sentito parlare di “tedeschità” o di “inglesità”. Perché proprio nella lingua italiana si è venuto a coniare questa parola? Non perché non si possa tradurre, ma a causa della quantità di quesiti irrisolti e di tracce di culture diverse, fusioni di “virtu’ contro furori”, che in ogni italiano sopravvivono come in una sorta di codice cromosomico.
Cosa significa dunque italianità, se non semplicemente “essere italiani”, come si potrebbe dire “essere inglesi” o “essere tedeschi”? Se lo chiedessimo in giro, per strada, probabilmente molti resterebbero confusi, direbbero tutto o nulla, accennerebbero ai valori patriottici post-unitari o a quelli distorti nell’epoca fascista, oppure, più probabilmente, parlerebbero della cultura, delle arti, della letteratura. Come diceva Francesco De Sanctis: “La letteratura è il vero diario di una nazione. La storia dell’Italia corrisponde alla storia della sua letteratura. Una storia della letteratura sarebbe una storia dell’Italia [per il semplice fatto che] la letteratura può metterne in scena le contraddizioni e i conflitti”.