Un gesto ritma la vita di Antonia (Alessandra Sarchi, Il dono di Antonia, Einaudi Stile Libero Big, 2020). Ogni giorno Antonia si tuffa nella piscina, nuota, si immerge in una sorta di liquido amniotico domestico. L’immersione fusionale prima e la rottura della superficie delle acque poi sembrano convocare un altro movimento: quello del parto. Solo che la rottura delle acque non consegna ad Antonia una neonata, ma Anna, sua figlia, 18 anni. Anna centellina le calorie e quello che mangia lo dissipa correndo o nuotando, Anna contesta Antonia scarnificandosi, Anna ha seppellito i rituali che scandivano la loro esistenza quando l’amore le incollava una all’altra, Anna vive con insofferenza tutto quello che riguarda Antonia, Anna consuma la madre consumando se stessa.
“Anna aveva sviluppato un regime di controllo austero del cibo, soppesato al millesimo per qualità, provenienza e soprattutto quantità. Il pane, i dolci, la cioccolata, i formaggi erano stati banditi dal suo piatto, dove si ammonticchiavano invece cavolfiore bollito, zucca lessata e spugnose porzione di tofu alla piastra. In contemporanea era partito l’accanimento sportivo: in palestra anche quattro volte alla settimana e poi correre e nuotare, mai per meno di due ore”.
Il corpo di Anna è un corpo nel quale alligna “una magrezza maligna”. Un corpo sottile, etereo, che aspira all’evanescenza. Un corpo anti-materno. Perché è il corpo gravido, pieno, gonfio, ospitale, è il corpo della madre che il corpo anoressico si incarica di contestare. È agli antipodi del corpo materno che il corpo anoressico si colloca. Se nella gravidanza il corpo è abitato, sdoppiato, è come spossessato dalla vita che ospita diventando un corpo fuori-controllo, un corpo fuori-misura, il corpo anoressico rivendica, invece, un controllo ossessivo, totale, totalitario su di sé: è un corpo singolo, chiuso, sigillato, sterile.
Nella vita di Antonia, seppellito dal silenzio, vive un segreto. Un’altra vita, un’altra maternità, lontana, irrivendicabile. Una maternità senza corpo, ridotta alla sua dimensione aurorale. Il dono di Antonia vive nella tensione, nell’avvicinarsi e scontrarsi, nell’approssimarsi fino a toccarsi, di queste due maternità; l’una prossima, l’altra irraggiungibile; una astiosa, l’altra bagnata dalla luce del mistero; una satura di quotidiano, di umori, di rifiuti, l’altra ammorbidita, lambita dalla dolcezza (e dalla paura) dall’ignoto.
Alessandra Sarchi incarica Antonia e le altre donne del romanzo – donne che si muovono in un universo nel quale il conflitto non è più tale perché è disertato dalle parole, si è fatto muto, si è conficcato nei corpi, ha scelto di incistarsi nella carne, si misura con le calorie – di guardare nello spazio vuoto disertato dalla Madre, e ora abitato delle madri. Quella scia nella quale, caduto il velo edificante e irraggiungibile del Modello, si accalcano donne in carne ed ossa (e i loro fantasmi). Un grumo nel quale amore e disamore, orgoglio e paura, forza e debolezza, si mischiano, si contagiano, si riversano uno nell’altro.
“Si dice sempre che le madri abbiano paura per i figli, che le madri vaglino con ansia tutti i possibili pericoli, anche quelli immaginari, cui i figli possono andare incontro. Meno spesso si dice che le madri hanno anche paura dei figli”.