C’è un luogo che la musica di Bruce Springsteen frequenta, ormai, da anni. Quel luogo è popolato da figure impalpabili, evanescenti, eteree. Figure liminali, figure che hanno varcato l’ultima frontiera. È come se i personaggi di Springsteen abbiano abbandonato la dura terra dove i semi non attecchiscono più e le vite rotolano via per abitare un altro spazio, un’altra dimensione, un’altra vita, un’altra terra. Questa terra è la terra degli spiriti.
Da sempre la musica americana è ossessionata dall’attraversamento. Gli spiritual e i gospel, da dove tutto è iniziato, lo testimoniano continuamente. C’è sempre un fiume da superare e nel quale bagnarsi. Un treno da afferrare al volo. Un confine da superare. Ma la destinazione non è terrestre, l’approdo non è fisico ma escatologico. Ci si ritrova on the other side, dall’altra parte. In un’altra dimensione. Nella terra dei ghosts, nella landa degli spirits. “Meet you brother and sister on the other side”, canta Springsteen in Ghosts, seconda traccia dell’album Letter to you in uscita il 23 ottobre, convocando tutti gli ingredienti che nutrono da sempre la sua poetica: la musica, il viaggio, la redenzione, la comunità (dei vivi e dei morti).
La voce dei fantasmi, a ben vedere, striscia già in Nebraska. O meglio, Nebraska era un’anticipazione. Perché in quell’album solitario, livido, scarno, Springsteen si ferma sulla soglia. Da lì, ascolta la voce dei condannati a morte, di chi non è ancora on the other side ma sa che sarà presto gettato nel “grande vuoto”, di chi è fermo prima dell’attraversamento, quello finale e fatale allo stesso tempo. Di Johnny 99 conosciamo le ultime parole, pronunciate prima che il confine sia varcato. Del pluriomicida di Nebraska – ma la sua voce non sembra già quella di un fantasma? – non ci aspettiamo più nulla: nessun segnale verrà restituito dal grande vuoto nel quale la sua anima sarà scaraventata (da un boia). È un fantasma il padre di My Father’s house: la casa nella quale torna il figlio è disertata dalla sua presenza. Sono viaggi spettrali quello di Open all night e State trooper: la notte, il buio, le maglie della realtà che si slabbrano, il disperato appello a un poliziotto perché non fermi il fuggiasco in auto, la preghiera indirizzata al rock’n roll, dio pagano e sensuale, di strapparci da questo nulla.
Se prendiamo quell’altro gioiello di scrittura del Boss, quel The Ghost of Tom Joad che già nel titolo richiama il potere degli spettri, scopriamo che quella porta che in Nebraska era ancora socchiusa, ora è spalancata. Ovunque si sentono spifferi. Echi. Voci. Qui i fantasmi parlano. Frusciano, sussurrano. La musica di Springsteen torna a farsi quieta, spettrale, si assottiglia, non tollera rumori invasioni urla. Deve catturare i ghosts. Inseguirli. Ospitarli. La voce di Bruce si confonde con la loro, con la voce di fantasmi. C’è il fantasma di Tom Joad, una voce che sussurrava dalle pagine di Steinbeck, riecheggiava dalle strofe di Guthrie, rimbalzava dalla pellicola di John Ford. Ma abitano la terra degli spiriti anche il protagonista di quel capolavoro dimenticato che è Straight Time che, esattamente come i fantasmi, è tornato a casa dopo aver trascorso otto anni in prigione, è tornato da un altro mondo, si sente un fantasma, incapace di riadattarsi alla sua vecchia vita, alla fine è come uno spettro quando “poggia la testa sul cuscino e va alla deriva in terre straniere”. E dove si muove se non nella terra dei fantasmi l’uomo di Highway 29 che dopo aver ucciso si invola nella terra dei morti? Se i fratelli di Highway patrolman devono separarsi per sopravvivere a se stessi, uno consente all’altro di fuggire, per Miguel e Louis, i Sinoloa cowboy dell’omonima canzone, non resta altro che il sigillo di una tomba. Tutto Tom Joad è popolato da uomini che vivono su quel bordo aguzzo, scivoloso, fangoso (ricordate il grande fango?), lo scrutano, si spingono sul precipizio, si fanno risucchiare dalle ombre. A volte si trattengono come in Galveston Bay, a volte sono pronti a farlo esplodere (“Mi dispiace proprio/ Mio Gesù il tuo amore prezioso e la tua misericordia/ stanotte non riempieranno il mio cure/ come un buon fucile/ e il nome dell’uomo che devo uccidere”). L’uomo di Dry lightning vive accanto a un fantasma, lo sogna, lo invoca, lo desidera: “I chased the heat of her blood/ Like it was the holy grail/ Descend beautiful spirit/ Into the evening pale”.
E The rising cosa è se non il tentativo di dar voce agli spiriti? Di cantare con la loro voce? Di intercettarne gli ultimi movimenti? Di catturare, trattenere il loro lascito? Se in Nebraska l’attraversamento era ostruito, il passaggio bloccato, non c’era altro approdo che non il nulla, il vuoto, la vana reason to believe, ora il passaggio non si compie davanti al nulla. Il vuoto si è popolato. Spiriti incontra, nella sua ascesa nelle Torri gemelle, il pompiere di The Rising, facce annerite, corpi che bruciano, prima di sostare anche lui “davanti alla luce incandescente” del Signore e diventare incorporea assenza, morte che non muore? E in Into the fire è a loro, agli spiriti, che Bruce chiede la forza il coraggio la speranza, la forza, il coraggio la speranza degli spiriti? In You’re missing c’è l’amore perduto, l’assenza ancora appiccicata alle cose, ai vestiti, ai bimbi, alla buca delle lettere, il dolore di vivere accanto a un fantasma.
L’elenco potrebbe essere infinito. La perdita campeggia, dolorosa e spettrale, in Devils and Dust. In Silver Palomino un figlio scorge in un cavallo imprendibile il fantasma della madre morta, in Jesus was an only son è Maria che evoca il fantasma di suo figlio Gesù. Ma fantasmi si agitano anche negli occhi del soldato di Devils and Dust (“casa è così lontana da noi”), nell’uomo deluso di All the way home. Insegue un fantasma il protagonista di Reno. È un fantasma il migrante di Matamoros banks: la sua voce sale dal regno dei morti. La perdita è conficcata anche in Magic. Il motociclista perduto di Gipsy baker, le vittime senza nome di Last to die, il soldato di Devil’s Arcade: sono tutte ombre, fantasmi, spettri. Il fantasma è colui che torna, colui che vogliamo trattenere, è la vita disarticolata, spezzata dalla perdita. E ancora: l’uomo di Streets of Philadelphia e quella di Dead man walking cosa sono se non persone che stanno per diventare fantasmi? Terry’s song, The last carnival, The wall non sono altro che delicate elegie, parole d’amore indirizzate a chi è entrato, definitivamente, nell’ombra.
Ghosts è il raccordo di questi mondi. “Sono vivo”, grida il protagonista del brano, mentre testimonia la sua fede nella musica, ricapitola il passato e tanta di gettare un ponte verso il futuro. “Sono vivo”, grida ma è un vivo con un viso, due mani, bocca fiato voce chitarra sax o è, invece, un morto, uno spirito, un fantasma? “Sono vivo”, grida ma è un vivo che invoca gli “spiriti pieni di luce”, che è confortato dalla loro presenza o, invece, è uscito dalla galleria di morti di We’re alive, tornato per assicurarci che “anche se i nostri corpi giacciono solitari/ qui nell’oscurità i nostri spiriti si risolleveranno/ per portare il fuoco e accendere la scintilla/ per resistere spalla a spalla, cuore a cuore”. Una cosa è certa. La comunità dei vivi e quella dei morti giacciono una accanto all’altra. Incorporei e ostinati, i morti sono in mezzo a noi. O dentro di noi.
“The loss of Clarence and Danny still echoes every day in my life. I still don’t believe it. I’m like, ‘I’m not gonna see Clarence again? That doesn’t sound quite possible!’ I live with the dead every day at this point in my life. Whether it’s my father or Clarence or Danny, all those people sort of walk alongside you. Their spirit, their energy, their echo continues to resonate in the physical world.… A beautiful part of living is what we’re left by the dead.”
È un uomo che fa i conti con la mortalità il protagonista di Letter to you. Con il peso dell’eredità, quella trama di cicatrici nostalgie vittorie rimpianti che precede il distacco e che (forse) alla fine si vuole solo deporre. Quello che siamo, quello che lasciamo. Prima di diventare fantasmi.