Il Narciso rovesciato di Saverio Bafaro: Osicran o dell’Antinarciso

Articolo di Nicola Fornabaio

Con “Osicran o dell’Antinarciso” (Il Convivio Editore, 2024), Saverio Bafaro compone un’opera poetica stratificata e inquieta, che si muove tra filosofia, mito e psicoanalisi, interrogando il concetto stesso di identità. Il titolo, palindromico e sovversivo, annuncia fin da subito la sfida concettuale del libro: ribaltare la figura archetipica di Narciso, figura simbolo di autoreferenzialità e chiusura, per cercare un nuovo equilibrio tra il sé e l’altro, tra il visibile e l’invisibile, tra il riflesso e la materia.

Bafaro, poeta e psicoterapeuta, fa della parola uno strumento di analisi e di disvelamento, ponendo il lettore davanti a uno specchio instabile che non restituisce immagini univoche, ma frammenti, distorsioni, assenze. Il suo “Antinarciso” non è un rifiuto del mito, bensì una sua riattualizzazione critica, che si muove in un campo di forze opposte: la ricerca dell’io e la sua dissoluzione, il desiderio e il timore del contatto, la memoria e l’oblio («Quante vite albergano in me / alcune sono naufragate / scivolando al largo, disperse / e rubate dalla corrente / ad altre tendo il braccio / per farle salire a bordo / mentre procede il viaggio / verso cieli nuovi e nubi / compagne di vele issate»). La poesia diventa così un viaggio iniziatico, un attraversamento dell’ombra che non conduce necessariamente alla luce, ma a una consapevolezza più profonda della complessità dell’essere.

Elemento cardine dell’opera è lo specchio, non solo come simbolo ma come vero e proprio strumento narrativo. Lo specchio è ciò che rivela e inganna, è la superficie riflettente in cui il soggetto si cerca e si perde. È uno spazio liminale, dove l’identità si scompone e si ricompone, in un gioco di apparizioni e sparizioni: «L’assenza di specchi nella stanza / non basterà più come alibi / il silenzio porterà un mantello / per farti scomparire e comparire.»

Il riflesso non è mai neutro: può essere ferita, illusione, inganno. Può trattenere il soggetto in una prigione narcisistica oppure aprirlo a una dimensione altra, come accade nel desiderio di evasione evocato nei versi: «Entro nella pozzanghera / quando il mio cuore / vuole rimanere lì / all’ennesimo passaggio / traggo un respiro di quiete / e un moto lento / mi accarezza la nuca.»

La liquida ambiguità dello specchio diventa così una metafora della condizione esistenziale contemporanea, segnata da una tensione irrisolta tra il bisogno di affermarsi e la paura di svanire.

La scrittura di Bafaro si nutre di suggestioni mitologiche, che vengono però continuamente decostruite e reinterpretate alla luce di un’esperienza personale e collettiva. Il poeta attraversa le figure archetipiche senza mai farsi risucchiare dal loro significato originario, trasformandole in spazi di riflessione e riscrittura. In questo senso, “Osicran” si colloca nel solco di una tradizione che ha visto autori come Borges, Pessoa e Pirandello interrogarsi sull’identità e sulla sua costante metamorfosi.

L’esperienza autobiografica è presente, ma mai esibita in modo diretto: si insinua nei testi come un’ombra sottile, come un’eco che risuona nelle immagini e nei simboli. È una scrittura che lavora sulla soglia tra personale e universale, tra memoria e invenzione, tra corpo e linguaggio.

Dal punto di vista stilistico, la poesia di Bafaro si distingue per un uso sapiente del verso libero, che alterna momenti di limpida musicalità a improvvisi scarti ritmici e semantici. L’autore costruisce immagini di forte impatto visivo, servendosi di un lessico essenziale ma evocativo, che lascia spazio al non detto, all’allusione, al sotto-testo.

Il tono delle poesie è spesso sospeso tra lirismo e riflessione, tra slancio emotivo e distacco analitico. L’oscillazione tra questi poli riflette la stessa tensione che anima il libro: il tentativo di superare il narcisismo senza perdere la propria identità, di guardarsi senza restare prigionieri dell’immagine riflessa.

“Osicran o dell’Antinarciso” è un’opera che interroga il lettore, lo costringe a un confronto con la propria immagine e con il proprio desiderio di riconoscimento. Saverio Bafaro ci consegna una raccolta potente e stratificata, che non si limita a sovvertire il mito, ma lo usa come chiave di lettura per il presente. La sua è una poesia che non offre certezze, ma domande; che non si accontenta della superficie, ma cerca di sondare il fondo, là dove il riflesso si infrange e l’identità si rivela nella sua complessità e nella sua fragilità.

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