Mai come ora l’intero genere umano è a rischio estinzione. Mai come ora la guerra mondiale a pezzi, come l’ha definita il papa già qualche anno fa, potrebbe diventare la Terza Guerra Mondiale, che sarebbe combattuta ricorrendo alle armi atomiche e che metterebbe a rischio la sopravvivenza dell’intera umanità. Mai come ora “[…] la fatuità e la noia che invadono ciò che ancor sussiste, l’indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è in marcia.” (Hegel)
In questa fase storica il numero dei conflitti armati nel Mondo è il più alto dalla Seconda Guerra mondiale e due miliardi di esseri umani, uno su quattro degli esseri umani che vivono sul pianeta Terra, vivono in Paesi che sono coinvolti nei conflitti. Le spese militari globali non sono mai state così alte: più di duemiladuecento miliardi di euro all’anno (cresciute del 4% in termini reali dall’anno scorso). E la “civilissima e pacifica” Europa ha fatto registrare il più alto indice di spese militari degli ultimi trent’anni: più 13%!
E a proposito degli scenari terribili che si potrebbero apparecchiare concordo con quanto ha scritto lo scienziato Carlo Rovelli una diecina di giorni fa sul “Corriere della Sera”: “Politicamente il mondo si sta separando in due blocchi di natura diversa. Da un lato un Occidente dominato da un solo Paese, gli Stati Uniti, che si arroga a gran voce la leadership globale, spende più di ogni altro in armi, ha un migliaio di basi militari che costellano il pianeta e un apparato industriale militare che si arricchisce. Ma dal Vietnam all’Afghanistan non ha fatto che perdere guerre contro nemici militarmente più deboli, e mancare gli obiettivi politici delle azioni militari, come in Iraq o in Libia. Guerre spesso iniziate con pretesti rivelatisi falsi, come in Vietnam o in Iraq. In oltre 300 conflitti, gli Stati Uniti sono in guerra mondiale, senza – a parte l’attentato alle torri – essere stati attaccati. Dall’altro lato, il conglomerarsi di una galassia di paesi che son cresciuti più rapidamente dell’Occidente, e formano la maggioranza demografica e ora anche economica del mondo. […]. Questa parte comprende le grandi democrazie del pianeta, come India, Indonesia e Brasile, paesi come la Cina guidati da un partito comunista che ha ottenuto successi economici sbalorditivi unici nella storia, e un paese come la Russia, con un arsenale nucleare comparabile a quello statunitense.”
Per lo scienziato italiano, il punto di svolta, non per caso si richiama a quanto ha dichiarato più volte il Segretario generale dell’Onu, sarà la nascita di un mondo multipolare nel quale uguaglianza e giustizia siano pienamente affermati. Scrive Rovelli: “[…] da una parte la gestione multipolare, democratica, condivisa, dei problemi comuni, in cui gli interessi del pianeta siano tenuti in conto. Dall’altra, la determinazione degli Stati Uniti a spaccare il pianeta fra alleati e nemici, e imporre la supremazia di una minoranza, mascherandosi con la retorica vuota delle democrazie contro gli stati criminali.” E, aggiungo io, aggravata dall’assunzione surrettizia da parte dell’Occidente della “prova ontologica” di Anselmo d’Aosta, il quale, nel “Proslogion”, ‘dimostrava’ l’esistenza di Dio muovendo dal semplice concetto di Dio. Contro lo sciocco del XIII Salmo che diceva in cuor suo “Dio non c’è”, per Anselmo anche il negatore dell’esistenza di Dio doveva possedere il concetto di Dio, essendo impossibile negare la realtà di qualcosa che non si pensa neppure e dato che il concetto di Dio è quello di un essere di cui non si può pensare nulla di maggiore (quo maius cogitari nequit), anche lo sciocco doveva ammetterne l’esistenza. L’Occidente, forse a sua insaputa?!, segue un simile schema ideologico e così al suo concetto fa seguire le definizioni che ci danno “il migliore dei mondi possibili”: libertà, democrazia, pace, benessere, sviluppo, felicità, e via dicendo; in sostanza, il paradiso scende sulla Terra appena si pronuncia la parola Occidente, anche se la realtà, fondata sull’inoppugnabile esperienza, ci dice, purtroppo, il contrario. Di più: per il tramite di un consolidato slittamento semantico dei termini e del linguaggio nel suo complesso, basti pensare a “1984” di George Orwell, assistiamo continuamente al rovesciamento del significato delle parole e di conseguenza della realtà. Questo ferreo piano ideologico del declinante Occidente viene ulteriormente svelato dalla riflessione critica del grande intellettuale palestinese-statunitense Edward W. Said, il quale, ha spiegato come la categoria di “orientalismo” sia stata, e continua ad essere, funzionale al modo occidentale di esercitare la propria influenza e il proprio predominio sull’Oriente, inteso come tutto ciò che non è Occidente. “Orientalismo” che, spiegano insigni studiosi, oggi è vivo (sic!) e gode di ottima salute e i media ne sono saturi. Il suo principale assioma – gli occidentali sono incapaci di definire sé stessi se non ponendosi di fronte ai rappresentanti di un’umanità radicalmente altra, non-bianca, considerata incivile e gerarchicamente inferiore – viene declinato quotidianamente in tutte le forme possibili.
Ma noi vogliamo ragionare di pace e vogliamo che il 2024 sia foriero di un mondo migliore, capace di “reinvertire l’invertito corso del mondo” (di nuovo Hegel) e di allontanare la prospettiva del conflitto globale. Per raggiungere questo traguardo è indispensabile uno sforzo tremendo perché la civiltà umana potrebbe essere distrutta da una guerra combattuta con l’arma atomica, come affermò Einstein già nel 1945. E non sembri strano che per parlare di questioni così importanti per l’intera umanità preferiamo dare la parola a un grandissimo pensatore nato trecento anni fa, il 22 aprile 1724, e morto duecentoventi anni fa, il 12 febbraio 1804: Immanuel Kant, che, nel 1795, duecentoventinove anni fa, scrisse un bellissimo testo a proposito della pace definita “perpetua” per distinguerla dalle paci che si erano susseguite fino a quel momento, e noi possiamo confermare perché fino ad oggi è andata così, intese sempre come un periodo di tregua tra una guerra e l’altra, la pace in attesa “della guerra che verrà”. Ma, vogliamo ricordarlo ancora una volta, dopo Hiroshima e Nagasaki, in presenza delle armi atomiche, “la guerra che verrà” potrebbe essere l’ultima. Ecco dunque l’attualità di Kant e spiegato il titolo geniale del suo scritto “Per la pace perpetua. Un progetto filosofico”: per fare ciò, resta fondamentale l’idea che l’analisi delle cause oggettive dei conflitti sociali e internazionali e l’agire concreto per il riconoscimento dei diritti fondamentali di ogni persona siano premessa ineludibile all’eliminazione della violenza e alla realizzazione di una pace durevole. Occorre, dunque, battersi per la pace, come del resto afferma senza se e senza ma la nostra Costituzione – in particolare l’articolo 11:” L’Italia ripudia la guerra…” – che ha un impianto complessivamente pacifista (ricordo che il 1° gennaio la Costituzione compie 76 anni).
Il progetto della pace perpetua non è concepito da Kant come un’utopia: nulla è più estraneo alla mente di Kant che il pensiero utopico; delle utopie in genere dice che è dolce immaginarle, ma temerario proporle e colpevole sollevare il popolo per cercare di attuarle. Kant non è un utopista perché usa incalzanti argomentazioni che stabiliscono l’analogia tra la conflittualità all’interno della società, risolta nel contratto sociale, e quella tra gli stati-nazione risolta nell’arena internazionale. È evidente l’applicazione del contrattualismo in virtù del parallelismo tra razionalità degli individui e razionalità degli stati. Non è chi non vede il riferimento al pensiero platonico, e in particolare alla concezione politica del filosofo delle Idee, secondo il quale esisteva un preciso rapporto tra individuo, inteso come anima, polis (stato), e la divisione in classi della stessa città (società): produttori (lavoro manuale, banausicità), soldati (i difensori), filosofi (governo, razionalità); quindi, la condanna della guerra da parte della ragione moralmente legislatrice implica la concreta possibilità del raggiungimento della pace alla stregua di un dovere immediato, senza alcuna concessione ad “astratte” prospettive utopiche. Il suo progetto di pacifismo giuridico non è solo ancorato saldamente a una filosofia della storia, ma è anche reso coerente dallo sfondo più ampio della sua teoria etica. Il fine della storia sociale umana è la costituzione di una società giuridica che abbracci tutta l’umanità, e che in quanto tale garantisca, insieme con la pace universale, la libertà di tutti gli individui viventi sulla terra. I filosofi, afferma Kant, non devono fare propaganda; essi devono, piuttosto, esercitare la funzione intellettuale. In questo caso devono pensare l’impossibilità della guerra e l’inevitabilità della pace e cercare di comunicare ciò ad altri che, con loro, condividono un mondo che ha conosciuto finora, e presumibilmente conoscerà ancora, la crudeltà della stupidità e della barbarie. Del resto, se questo progetto filosofico non si realizzasse la scritta che campeggia sull’insegna di un’osteria olandese, su cui era dipinto un cimitero, rischierebbe di valere non solo per i capi di stato che “non riescono mai a saziarsi delle guerre”, o per “i filosofi che hanno quel dolce sogno”, ma soprattutto “per gli uomini in generale”.
Qualcuno giudica inattuale il testo di Kant. Noi, al contrario, lo riteniamo di stringente attualità. Uno scritto che mantiene a tutt’oggi grande importanza, come dimostrano i dibattiti spigolosi suscitati dai neocon d’oltre Oceano che tentano di collocare Kant tra gli utopisti, in un paradiso post-moderno; sono quelli che si attardano in negoziati, regole e trattati, mentre loro americani, operano in una realtà hobbesiana dove la sopravvivenza dipende dalla forza delle armi. Non è chi non veda, allora, come lo scritto di Kant debba essere principalmente rivolto ai giovani per far sorgere nelle nuove generazioni una visione razionale, cosmopolita e progressista, secondo un processo storico che affida agli esseri umani un ruolo centrale, nell’ottica kantiana della forte sottolineatura della soggettività e del suo rapporto col mondo. Ma cos’è l’uomo per il fondatore del criticismo? Un essere bidimensionale, composito, che deve farsi guidare da quella parte della propria interiorità che è la ragione, anche se l’uomo nasce afflitto dal male radicale e deve compiere un enorme sforzo su se stesso e imporsi la virtù affinché raggiunga il fine che si è dato, che è l’uomo stesso, il rispetto della sua essenza e della sua dignità, il suo perfezionamento continuo: il fine superiore è l’uomo e in questo senso il filosofo di Koenigsberg si rivela il continuatore degli ideali più alti di tutto l’Umanesimo e del Rinascimento, nonché della moderna civiltà europea. La ragionevole speranza è che il confronto su questo testo possa servire a rafforzare le istanze di quanti seriamente lavorano per la pace in un mondo minacciato da guerre “folli”, ma non per questo meno devastanti. Kant per dare più forza alle sue argomentazioni, rifacendosi a Hobbes, ritiene indispensabile passare, per quanto riguarda il genere umano, dallo stato di natura allo stato civile e fuoriuscire dalla condizione del bellum omnium contra omnes onde evitare la totale distruzione dello stesso genere umano. Per conquistare questo traguardo, solitamente si ricordano alcune regole: la prima, comanda di sforzarsi di cercare la pace (pax est quaerenda), la seconda impone di rinunciare al diritto su tutto (jus in omnia est retinendum), la terza afferma che bisogna stare ai patti (pacta servanda sunt). Anche Spinoza funge da ispiratore per la elaborazione kantiana: si deve giungere al patto sociale non foss’altro perché, senza il reciproco aiuto, essi non potrebbero vivere agevolmente, né coltivare il loro spirito. Questa posizione, che, per certi versi, è mutuata dall’indirizzo giusnaturalistico e da quello hobbesiano, esplicita una sostanziale differenza derivata dalla concezione spinoziana della natura e dell’uomo, da cui dipende la nozione fondamentale di “diritto”.
LA FILOSOFIA DELLA STORIA
La filosofia della storia assume sempre più importanza anche per l’influsso esercitato su Kant dalla Rivoluzione francese, il cui significato epocale non poteva certo sfuggire al Nostro che coniuga la profondità della riflessione filosofica con una attenta osservazione della realtà del suo tempo. Kant si chiede se sia possibile individuare una direzione e una meta della storia dell’umanità o se, invece, la storia sia soltanto un disordinato e casuale elenco di eventi senza senso preciso; oppure porre il senso come se fosse orientato a un fine, anche se il concetto di fine non appartiene all’ambito della conoscenza teoretica che ha per oggetto i fenomeni (il problema del limite in Kant). Del resto, la vita associata deriva dalla “insocievole socievolezza”, che spinge gli uomini ad unirsi in società, anche se a questa tendenza si contrappone un “naturale egoismo”: pertanto, antagonismo e desiderio di autoaffermazione svolgono la funzione positiva di stimolo del progresso. Ecco perché il cammino che dalla barbarie conduce alla civiltà non è individuale, ma può essere percorso soltanto collettivamente: gli esseri umani possono perfezionarsi solo all’interno della società. Allo stesso modo degli alberi, che isolati crescerebbero storti e deformi, mentre in una foresta, costretti dalla vicinanza a lottare per sottrarsi a vicenda aria e luce, si allungano dritti e verso l’alto.
COSA SOSTIENE NELLO SCRITTO “PER LA PACE PERPETUA”
Nel testo kantiano resta fondamentale l’idea dell’analisi delle cause materiali dei conflitti e del superamento del modello antropologico: l’idea cioè che la responsabilità della guerra sia immediatamente imputabile alla natura dell’uomo è irreversibilmente superata ed infatti chiama in causa la struttura dell’ordine internazionale, in pratica l’ancien régime. Vi è un richiamo della visione machiavelliana della critica a partire dalla comprensione della realtà e di quella rousseauviana del nesso causale tra monarchia assoluta e politica di potenza, del legame tra ambito interno dello stato e quadro politico internazionale. Sullo sfondo si intravvede l’idea di una politica che porti al rilancio di organismi internazionali (vien fatto di pensare all’attuale debolezza dell’Onu), che possano e sappiano rilanciare le vie diplomatiche per la risoluzione delle controversie internazionali e consentano di assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni. Si tratta di una visione affascinante, di tipo cosmopolita e nettamente progressista nella quale si mette a tema il processo che interessa la natura e l’uomo. Dunque, occorre passare dalla libertà selvaggia degli stati all’affermazione di un ideale cosmopolitico per un’umanità interamente pacificata come viene preconizzato nella filosofia antica e nell’ecumenismo cristiano, teso alla realizzazione del proprio contrario – appunto la pace – e quindi alla propria soppressione.
ARTICOLI DEFINITIVI PER LA PACE PERPETUA TRA GLI STATI
Kant sostiene nel Primo articolo definitivo per la pace perpetua che In ogni stato la costituzione deve essere repubblicana. È un’affermazione di straordinaria portata se pensiamo che viene pronunciata alla fine del Settecento, quando la stragrande maggioranza dei Paesi erano monarchici (e per giunta assolutisti); ma solo la costituzione repubblicana ha la prospettiva di “quell’esito desiderato, la pace perpetua”. Infatti, dove “il sovrano non è il concittadino, ma il proprietario dello Stato, e la guerra non toccherà minimamente i suoi banchetti e le sue battute di caccia, i suoi castelli in campagna, le sue feste di corte e così via, e può allora dichiarare la guerra come una specie di gara di piacere per futili motivi e, per rispetto delle forme, affidare con indifferenza al corpo diplomatico, sempre pronto a questa bisogna, il compito di giustificarla.”
Il Secondo articolo definitivo per la pace perpetua recita Il diritto internazionale deve fondarsi su un federalismo di liberi Stati. In questo caso, Kant può dirsi il preconizzatore degli organismi internazionali, come la Società delle nazioni e l’ONU, che nel Novecento e nel Terzo Millennio hanno tentato faticosamente di garantire la pace tra gli Stati. Infine, nel Terzo articolo definitivo per la pace perpetua il Nostro autore propone che Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell’ospitalità universale, e non è chi non vede l’attualità di questa posizione in un mondo nel quale migrazioni di massa, milioni di profughi in fuga da Paesi in guerra, distruzioni provocate da conflitti decennali e tutto ciò che è foriero di violenta contrapposizione sembra non trovare soluzione proprio perché si è smarrita la strada che Kant, invece, vorrebbe che fosse imboccata. Non si tratta solo di un diritto di accoglienza a cui lo straniero possa appellarsi, ma, come sostiene il pensatore prussiano, di “ un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini, il diritto di offrire la loro società in virtù del diritto della proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno a fianco all’altro; originariamente però nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della Terra.” Infine, possiamo dire che a Kant, anche in polemica, seppure molto raffinata, con Platone, non sembra essenziale che i filosofi diventino governanti; importa, invece, che possano parlare pubblicamente affinché non risulti corrotta la libertà di giudizio della ragione. E questo è a tutt’e due, governanti e filosofi, indispensabile per illuminare le loro cose. In conclusione, ci piace citare Erasmo da Rotterdam che negli “Adagia”, monumentale enciclopedia della cultura classica organizzata intorno a motti, detti, proverbi della più diversa provenienza, alla quale egli continuò ad attingere nel corso della propria vita, scriveva:” Dolce è la guerra per chi non ne ha esperienza. […] La citazione viene da Pindaro, là dove dice che la guerra è gradita a chi non l’ha sperimentata, ma chi l’ha provata avverte un enorme orrore nel suo cuore”.