Ventitré anni dopo l’Unità d’Italia – vale a dire nel 1884 – a causa degli spostamenti militari e commerciali tra vari Paesi europei, secondo diversi dati storici, alcuni operai portarono inconsciamente in Francia – prima a Marsiglia e poi a Tolone – l’epidemia di colera che si fece strada molto velocemente in Italia, colpendo in special modo la Sicilia e, in particolare, la città di Napoli, dove l’estremo sviluppo demografico – soprattutto nei quartieri di Mercato, Pendino, Vicaria e Stella – aveva peggiorato la vita dei napoletani in termini di spazio, di cibo, ma soprattutto di igiene. Le condizioni furono talmente gravi – si faccia conto che le strade erano ricoperte di liquidi corporei maleodoranti e infettivi di gente che soffriva e moriva come mosche – che nel 1887 si contavano, nella sola città partenopea, 7.994 deceduti, secondo le stime tratte in “Il mostro asiatico. Storia del Colera in Italia”, di Eugenia Tognotti, edito nel 2000. Nel 1885, con la cosiddetta “Legge per Napoli”, furono stanziati molti soldi perché si potesse dare alla città una via d’uscita con un piano di risanamento: furono costruite fogne; vennero alzati nuovi quartieri più ariosi e furono creati grandi canali, strade e piazze. In tutto questo degrado Matilde Serao – celeberrima giornalista e scrittrice italiana – scrisse un romanzo sociale di portata straordinaria che fece eco: “Il ventre di Napoli”.
Il ventre della città era costituito, per l’appunto, dai quartieri sopraccitati stracolmi di poveri, di malati, di affamati; pieni di bassi addossati l’uno sopra all’altro, fetenti, ripugnanti e bui, dove le persone si inventavano la vita ogni giorno per cercare di sopravvivere; dove il reale e il trascendentale erano legati da un filo molto sottile; dove la speranza della disgraziata gente veniva riposta negli altarini lungo le strade e nel gioco del Lotto; dove purtroppo si cadeva spesso vittima dell’usura; dove il paganesimo, lo spiritismo e l’occultismo si mischiavano molto facilmente e dove la morte era vissuta in modo assai pittoresco, quasi teatrale, anzi la morte diventava proprio teatro a Napoli come in nessuna altra parte del mondo. D’altra parte Napoli è la Magna Grecia e si sa che la penna della Serao è qualcosa di talmente meraviglioso che chi legge i suoi testi, difatti, non può non individuare nella città, ancora oggi, ciò che lei minuziosamente e prodigiosamente descrive facendo uso di tantissimi aggettivi qualificativi. Il re Umberto I – soprannominato “re buono” – volle visitare Napoli per vedere con i propri occhi il degrado che sussisteva e dare un supporto morale alla plebe e ai moribondi per mezzo del mostro asiatico. Il re venne accompagnato dal primo ministro Agostino De Pretis che in quell’occasione pronunciò una frase che assai colpì la sensibilità della Serao: “Bisogna sventrare Napoli”. Matilde Serao era convinta che un piano di risanamento non bastava per salvare i napoletani da una vita disgraziata; bisognava invece far leva su altre cose come, per esempio, denunciare la corruzione che dilagava imperterrita tra i vicoli della città; rafforzare l’etica del popolo e la morale anche se i napoletani, sì pieni di difetti, si mostravano spesso un popolo altamente generoso.
La Serao, infatti, fa emergere altresì la sua parte più umana: non accadeva di rado, per esempio, che molte donne, nonostante la povertà, andavano all’Annunziata per adottare un bambino abbandonato o che altre, dal canto loro, davano il seno ai neonati che non potevano ciucciare il latte dalla madre perché morta o perché sofferente di agalassia. I napoletani risultavano ignoranti, sì, ma molto intelligenti e potevano essere istruiti; i napoletani risultavano poveri, sì, ma molto furbi. Dunque c’era sicuramente del buono in quel popolo martoriato dalla povertà, dalla fame, dalla disgrazia, dalla malattia e proprio su queste qualità che si poteva e doveva puntare. Un risanamento poteva apportare soltanto un nuovo aspetto alla città, alle sue strade, alle facciate dei palazzi, ma dentro le case, dentro i cuori stessi della gente, l’arroganza del degrado rimaneva proprio come era prima. I palazzi potevano pure essere belli, imbiancati, lucenti, ma all’interno restava la corruzione nei cuori delle persone che li abitavano o che abitavano i bassi che rimanevano nascosti nei quartieri al di là delle piazze e delle strade ariose che fungevano da arterie principali della città. La Serao desiderava che Napoli fosse trattata come tutte le altre città italiane, che le fosse riconosciuta la dignità che meritava, che fosse rispettata perché vestiva i panni di metropoli e che i suoi abitanti – i napoletani – fossero tenuti in considerazione come i cittadini di qualsiasi altra città italiana. Tuttavia essi avrebbero dovuto dare un taglio netto al loro passato che spesso li portava a credere alle parole degli stregoni per guarire da questa o quella malattia, invece di recarsi in ospedale e di rivolgersi ai medici; spesso si affidavano a truffatori che davano loro dei numeri da giocare al Lotto e frequentemente si abbandonavano alla preghiera perché potessero trovare lavoro, senza però fare nulla di concreto perché questo avvenisse veramente. Quindi sventrare Napoli non era, per Matilde Serao, la soluzione, bisognava pensare anche ai napoletani e non solo a Napoli: “Ecco, io ho bisogno di risorgere. Io non solo debbo vivere, ma debbo svolgere tutte le mie forze sociali ed individuali: ognuno dei miei cittadini […] deve avere lavoro, salute, protezione, educazione, e tutti o cittadini, e, io, Napoli, debbo prendere il mio posto bello, nobile, forte, nella vita operosa ed efficace moderna”.
Oggi Corso Umberto I – detto altrimenti rettifilo – è una strada lunga 1 chilometro e 300 metri che rappresenta quello sventramento cittadino avvenuto negli anni post colera. Allo stesso periodo appartengono le costruzioni di piazza Giovanni Bovio e piazza Nicola Amore, anch’esse esempi di quel famoso risanamento, ma per la Serao e per altri intellettuali dell’epoca, tale arteria con le piazze non furono altro che la maschera bella della città che, però, rappresentava il fallimento della politica governativa perché dietro quei bei palazzi e quelle belle e spaziose piazze giacevano ancora i bassi, uno sopra all’altro, stracolmi di poveri, di malati, di affamati, sozzi, fetidi e bui, di quella plebe che giocava al Lotto, che si recava dagli strozzini, che si dava alla delinquenza e che, allo stesso tempo, accendeva lumini ai santini sulle strade. I vizi; la droga, il guadagno disonesto; la delinquenza infantile; la criminalità; l’evasione scolastica; gli altarini; il Lotto; l’usura; la teatralità della morte; la pietà; la povertà, la fede religiosa e i riti pagani: a 95 anni dalla dipartita della scrittrice (25/07/1927) la penna di Matilde Serao è così straordinariamente attuale per questa città. Quanta di quella Napoli maledetta e benedetta allo stesso tempo, descritta nel Ventre, esiste ancora oggi?