Siamo di fronte ad una silloge poetica ad ampio raggio, i cui motivi spaziano da incantate contemplazioni paesaggistiche, a riflessioni esistenziali caratterizzate da chiaroscuri, specchio di un io inquieto in cerca di pacificazione e di un’attualità impregnata d’echi di ritornanti guerre frutto di scoppi d’irrazionalità folle; da incursioni in vissuti memoriali variegati da luci ed ombre, a visitazioni di tipo pittorico del tempo e della storia della sua città; da denunce di diritti violati, agli abissi dell’anima contemporanea. Da tutto questo magma ora incandescente, ora indifferente, emerge il messaggio della poesia come canto libero e sete di umanità rinnovata, giustizia ritrovata, innocenza desiderata. Si dipanano nelle quattro parti del libro – Vorrei, In agguato, La mia città, Follie di guerre – richiami al nostro destino mondano e ultraterreno, allarmi sulla perdita di radici e identità, contrasti tra bellezza del creato ed aggressività umana etero ed autodistruttiva. Ecco allora – dice la poetessa – che abbiamo bisogno di uscire dalla monotonia delle nostre esistenze, per ascoltare e seguire nuove emozioni che ci fanno sentire vivi, ovvero quegli imprevisti battiti posti come titolo alla presente raccolta: «Ripetersi ogni giorno / fino alla noia / nei quotidiani gesti / uguali a se stessi. // Desideri repressi / nel magma / di una vita sfiorita / ma palpitante ancora // di imprevisti battiti» (Noia). Dunque dal taedium vitae al sursum corda.
È soprattutto nella prima parte che brillano le perle del suo lirismo naturalistico. Infatti la poesia che fa da incipit ai testi esprime una chiara immedesimazione con simboli che rappresentano la libertà senza confini, la metamorfosi dell’essere verso il volo onirico (il cervo ‘agile’ e ‘leggero’) e la pacificazione interiore che sconfigge la malinconia (il mare estivo ‘calmo e accogliente’): Vorrei è il titolo, praticamente sinonimo dei suoi sogni. Tra le altre composizioni in tema si segnalano: Nella notte, A Prévert, Tra la nebbia. Qui c’è una stella che con la sua luce abbagliante dirada le nebbie autunnali; poi subentrano le atmosfere ispirate alla nota poesia di Prévert (1900-1977) Le foglie morte, che la poetessa rivive tuttavia solo per l’aspetto simboleggiante la fralezza umana, tralasciando la memoria di un amore vissuto e perso, come nel poeta francese; poi ancora ritorna la poetica della nebbia che ammanta le colline, resa con immagini paesistiche invernali. Versi e strofe brevi, pennellate rapide ma colorite, sintesi talvolta metafisiche di una natura signoreggiante. Tutta tale bellezza potrebbe essere persa per colpa della mano distruttrice dell’uomo (Cosa rimarrà): nasce un grido di dolore per una probabile “apocalisse ecologica” futura. Talvolta l’autrice affianca agli incanti naturalistici meditazioni esistenziali di segno opposto, come «…una solitaria solitudine / tacita urla / il suo grido / in ogni angolo della vita» (Incanto) o come «…gialli girasoli illuminano / per un attimo / le vie della speranza» (Speranza): è l’altalena del vivere umano quotidiano.
Questo canone prosegue nella seconda parte e la occupa quasi interamente. S’affastellano gli aspetti negativi del disagio della civiltà (Freud) e del male di vivere (Montale): non senso e quotidiano grigiore; soffocamento e infelicità; menti confuse e insana follia; paura, smarrimento, angoscia del limite; essere nel nulla senza vie d’uscita; il mistero dei volti e delle maschere che ci fanno pirandellianamente uno, nessuno e centomila… Discesa agli Inferi è l’apice di tale alienazione, disumanizzazione, desertificazione della vita e dell’individuo contemporanei: lì si annidano ‘oscuri abissi’, ‘strade senza sbocco’, ‘perenne distrazione’. Allora il pensiero va Nell’Aldilà, dove «…forse dolci melodie / di suoni misteriosi / mi accoglieranno». Ma l’inferno dei vivi esiste già su questa Terra con l’insensatezza delle guerre, le distruzioni, il dolore e i lutti, il terribile rumore dei bombardamenti: homo, homini lupus follemente ritorna sulla scena nella guerra in Ucraina, a cui la poetessa dedica la quarta parte, che chiude con «… Pace e perdono, / nuove armi / contro / le bombe» (Unico tesoro).
Particolarmente legata ad Ancona – come Saba con Trieste – Veschi la ricorda come una città antica dai secoli dimenticati di storia (l’eroina Stamira), oggi trasformatasi in una città indolente, triste nel vuoto del presente. Ma la sua bellezza risiede nell’arte e nella natura: nei mosaici romani, nei rosoni barocchi, nei rosei alabastri, nell’Arco di Traiano … nel mare bluastro, nelle falesie del Conero e nella spiaggia delle Due Sorelle, nei frutti e nei fiori delle colline ubertose: poesie che sono un atto d’amore per la sua città.