In memoria di Carlos Alberto Montaner

Articolo di Gordiano Lupi

Appunti sul caso della morte di Oswaldo Payá

di Carlos Alberto Montaner

È il mondo alla rovescia. Se Ángel Carromero, sobrio e sereno, come era, avesse sofferto in Spagna o negli Stati Uniti un incidente come quello avvenuto a Cuba, non sarebbe stato accusato di omicidio colposo. In un altro paese, sia lui come i familiari di Oswaldo Payá e di Harold Cepero, i due democratici cubani scomparsi, farebbero causa al governo per la pessima segnalazione delle strade, e all’agenzia statale che aveva noleggiato l’auto, per la mancanza o il non corretto funzionamento degli airbag. La famiglia di Cepero, inoltre, potrebbe portare in giudizio il sistema sanitario, perché la sua morte poteva essere evitata se i servizi medici fossero stati rapidi e professionalmente capaci. Cepero non è morto sul colpo, come Payá, ma inseguito a un coagulo di sangue in una gamba che non è stato scoperto in tempo, cosa che può essere definita negligenza medica. La causa diretta del sinistro è stata l’assenza di pavimentazione stradale, la presenza di ghiaia scivolosa e la mancanza di cartelli che preavvisavano con chiarezza il pericolo. Nelle strade cubane, tenute in maniera pessima, esiste un deficit cronico di segnalazioni (a parte i cartelloni propagandistici che esaltano le meraviglie della rivoluzione), e, secondo Oscar Suárez, ex reporter della televisione cubana, che conosce bene il luogo dell’incidente, Ángel Carromero assicura di non aver visto nessun cartello, perché, semplicemente, non esisteva.

Senso comune

Quel segnale con sopra scritto semplicemente la parola “Buca”, che non fa presagire niente di chiaro, è stato messo dopo per costruire uno scenario idoneo a condannare il conducente e a discolpare le autorità cubane. Il cartello stradale internazionale  che avverte sulla possibilità di fondo scivoloso è composta da due linee ondulate parallele. Non si vedono simili segnali lungo il percorso.  Vogliono farci credere che Carromero teneva una velocità elevata e che è l’unico motivo per cui, frenando, la sua auto è uscita di strada e si è sfracellata lateralmente contro un albero. Questo è stato obbligato a dichiarare pubblicamente il giovane leader spagnolo. Ma è molto difficile correre a grande velocità per certe strade accidentate, tra l’altro viaggiando a bordo di un piccolo Accent di modesta cilindrata, e non c’è niente di strano nel frenare quando cambia improvvisamente la superficie stradale sulla quale viaggiamo, senza che ci siano cartelli a preavvisare il pericolo. Quel che sappiamo, con certezza, è che la maggior parte delle persone, sottomesse alla pressione della polizia cubana – ricordate “il caso Padilla” -, dichiara qualunque cosa. L’ex colonnello Álvaro Prendes, eroe della rivoluzione che finì in un carcere castrista e alla fine morì in esilio, era solito dire malinconicamente: “Superman, dopo una settimana nelle mani della Sicurezza di Stato cubana, si mette a piangere e si pulisce il naso con il mantello”. L’incidente rappresenta un’occasione per la dittatura per cercare di porre fine alla solidarietà internazionale con i democratici cubani. Carromero e Jens Aron Modig, il leader giovanile democristiano svedese che viaggiava con lui, si sono già scusati per aver prestato aiuto all’opposizione pacifica dell’isola.  Questo è il proposito del regime di Raúl Castro: invocare una supposta sovranità cubana vulnerata da alcuni stranieri che portano ai dissidenti un po’ di denaro, memorie flash, informazioni e, soprattutto, sostegno politico. Proprio ciò che fecero i democratici europei nei confronti dei loro colleghi spagnoli durante la dittatura di Franco.

Doppio livello

Sembra che sia più onorevole e in regola con le normative internazionali, ciò che fanno i comunisti di diverse parti del mondo quando raccolgono risorse nei loro paesi per sostenere la dittatura del partito unico di Raúl Castro. Il governo cubano, quindi, proclama ed esercita il suo diritto a praticare l’internazionalismo rivoluzionario che costò la vita a Che Guevara, ma non riconosce il diritto all’internazionalismo democratico, messo in pratica da chi crede che la libertà sia un dono universale.   Mentre Cuba si lamenta dell’intervento dei popolari spagnoli e dei democristiani svedesi nella politica cubana, i suoi agenti e simpatizzanti tentano di influenzare la politica nordamericana. Corre voce che alcuni organizzatori di voli charter USA-Cuba abbiano donato 250.000 dollari per la campagna di Obama, sperando che questo denaro si trasformi in un cambiamento politico verso Cuba durante il suo secondo mandato. Questo è quel che si chiama ipocrisia.

Oswaldo Payá

José Martí diceva: “Ci sono uomini che crescono sotto l’erba”. Dopo la morte si moltiplica la loro influenza. Come accadde allo stesso Martí. Nel 1895, quando lo uccisero durante un combattimento, era praticamente sconosciuto dai cubani all’interno dell’Isola. Aveva passato quasi tutta la sua vita adulta in esilio. Dopo la sua morte si trasformò in un gigante. Sembra che questo sarà il caso del leader democristiano Oswaldo Payá. La sua figura e il suo messaggio diventano più potenti ogni giorno che passa.  Il Papa ha inviato alla famiglia di Payá un telegramma di condoglianze. Altri capi di Stato latinoamericani si sono comportati allo stesso modo. Il presidente Obama, oltre alle condoglianze, ha detto che continuerà a lottare per il rispetto dei diritti umani a Cuba. Il candidato presidente Mitt Romney e il senatore Marco Rubio hanno chiesto un’inchiesta seria e trasparente. Forse i Castro stanno festeggiando la morte di Payá, il democratico di maggior peso, originalità e carisma dell’opposizione cubana, ma si sbagliano. I cattolici cubani hanno serrato le fila attorno alla figura del leader scomparso, come ha detto Dagoberto Valdés. Persino il cardinale Jaime Ortega ha chiesto alla società civile di difendere gli ideali democratici. Il messaggio di Payá può essere importante anche tra i rivoluzionari non allineati, che non credono alle false riforme di Raúl Castro. Molti di questi ex simpatizzanti del castrismo oggi ammettono che fu un errore non aver accettato nel 1998 la proposta innovativa contenuta nel Progetto Varela, quando Payá, lo scrittore Regis Iglesia e altri dirigenti del Movimiento Cristiano de Liberación, presentarono al parlamento cubano 11.000 firme per convocare un referendum con il quale si sarebbe dovuto decidere se la società voleva proseguire con il collettivismo e con la tirannia del partito unico, oppure se preferiva un’altra forma più ragionevole di governo. Fidel, stalinista incorreggibile, reagì modificando la Costituzione e rendendo irrevocabile la forma di Stato socialista. Non ho dubbio che Payá sia più vivo che mai. Cresce sotto l’erba.

Benvenuto, Pablo Milanés

Per bocca del cantautore potranno parlare centinaia di migliaia di comunisti cubani che si considerano veri riformisti.

Oggi (sabato 26 agosto, ndt) si esibirà a Miami il cantautore Pablo Milanés. Si tratta di un evento intriso di contenuto politico che vale la pena analizzare.

Pablo Milanés ha detto tre cose molto importanti durante un’eccellente intervista concessa a Gloria Ordaz di Univisión. Ha detto che non desidera più cantare per Fidel Castro, che non ha niente in contrario a dedicare una canzone alle Dame in Bianco, e che è un rivoluzionario critico, impegnato con il sistema socialista.

Bene. Questo significa, prima di tutto, che il famoso cantautore ha rotto definitivamente con quella penosa subordinazione morale e intellettuale verso il caudillo che caratterizza le irrazionali dittature personaliste; secondo, che accetta il pluralismo e le differenze all’interno di una società nella quale molte persone mantengono posizioni diverse, senza che questo le trasformi in nemici esecrabili o in agenti della CIA; e, terzo, che non ha smesso di essere comunista, ma non è disposto a tacere di fronte agli errori e ai soprusi del suo governo. Si considera un militante, ma non è cieco e muto di fronte alle cose che non vanno. Il rivoluzionario è un ribelle, non un personaggio quieto e sottomesso.

La mia impressione è che per bocca di Pablo stanno parlando centinaia di migliaia di comunisti cubani che si considerano veri riformisti. Per loro, non bastano le quattro toppe che Raúl vuol mettere al sistema produttivo per conservare la dittatura del partito unico, manovrata da un gruppo di persone scelte dal generale all’interno della ristretta cerchia dei suoi fedelissimi. Questo, secondo quanto si deduce dalle parole di Pablo, non è un governo moderno e legittimo, ma una banda al servizio di un capo onnipotente, incapace persino di rispettare i principi del “centralismo democratico” che dovrebbero regolare le relazioni tra camerati. Per questo motivo Pablo chiede cambiamenti reali.

I democratici dell’opposizione devono fare uno sforzo per comprendere il fenomeno. Pablo Milanés, e con lui centinaia di migliaia di persone che si considerano “rivoluzionarie”, non sono nemiche. Sono avversari politici che hanno certe idee, a mio giudizio assurde, ma restano persone con le quali si potrà e si dovrà convivere in una Cuba liberata dal dogmatismo stalinista dei Castro. Come accade in ogni democrazia sviluppata del pianeta, gruppi ideologicamente diversi convivono nei parlamenti e riescono a trovare momenti di collaborazione.

Forse i giovani cubani non lo sanno, ma nel periodo 1940 – 1944, in piena democrazia, il generale Fulgencio Batista, sostenuto dai comunisti, venne liberamente eletto alla presidenza della repubblica dalla maggioranza dei cubani. In un’epoca segnata da una crescita impetuosa, i comunisti – batistiani difendevano il pluralismo, al punto che entrarono a far parte del governo due ministri di questo partito politico. Quando Batista lasciò la presidenza e si recò in Cile, Pablo Neruda lo salutò con un testo molto ossequioso e pieno di aggettivi entusiasti.

Dopo oltre mezzo secolo di disgrazie, fucilazioni, esili di massa, impoverimento progressivo, avventure militari, violazioni dei diritti umani ed esercizio arbitrario del potere da parte di un caudillo illuminato, impegnato a reinventare tutto quel che esiste, dagli esseri umani alle mucche, passando per il caffè o l’apicoltura, è giunta l’ora che la società, tutta la società, assuma la direzione del suo destino in forma pacifica, razionale, pluralista e collegiale. Questo processo comincia con una sobria stretta di mano tra i comunisti riformisti e democratici dell’opposizione. Sono, e dovranno essere, avversari rispettabili, non nemici

Benvenuto, Pablo Milanés.

I tre misteri di Hugo Chávez 

Quando chiesero a Churchill cosa pensasse della politica estera dell’Unione Sovietica, rispose, ironizzando, con una frase memorabile: “Si tratta di un incognita avvolta in un mistero circondato da un enigma”. Qualcosa di simile sta succedendo con il venezuelano Hugo Chávez.

La prima perplessità riguarda il cancro di cui soffre. Muore o non muore? Secondo i sintomi apparenti, non ci sono dubbi che stia meglio. Non ha più il volto gonfio di cortisone, parla di nuovo in maniera instancabile, canta, salta, insulta. Fa le cose di sempre: delira, quindi, esiste. Ma ci sono altri sintomi più sottili. Raúl Castro, che conosce Hugo Chávez come se stesso, è andato a cercare aiuti economici e nuove alleanze in Cina, Russia, Vietnam e con altri paesi che potrebbero alleviare la crisi in cui sprofonderebbe Cuba con la fine del sussidio venezuelano, subito dopo la morte del pittoresco personaggio. Raúl è previdente. Fidel si rese conto del crollo del sistema comunista alcuni mesi prima che si verificasse, ma non fece niente per ridurre le conseguenze che avrebbe avuto su Cuba. Per questo la situazione precipitò fino agli anni duri del periodo speciale. Raúl non vuole che la fine di Chávez lo sorprenda e per questo si dà un gran da fare. 

Non è tutto. La stampa cubana, sino a oggi, non si è ancora spinta ad affermare che Chávez è guarito. Il Granma tace. Il periodico ufficiale del governo non vuole coprirsi di ridicolo come quando alcuni anni fa annunciò il pieno recupero di Fidel e il suo imminente ritorno al potere. I giornalisti e i commissari che vigilano sulla stampa sanno bene che nessuna persona seria parla di un cancro guarito senza prima aver atteso cinque anni dalla fine dei trattamenti.

Il secondo mistero riguarda tanto Chávez quanto i suoi sostenitori. Sono 14 anni che il paese è diviso a metà tra chi lo odia e chi lo ama, anche se esiste una buona parte di venezuelani che pare politicamente disinteressata. Negli ultimi tempi la popolarità di Chávez è aumentata, nonostante i gravi problemi di insicurezza (19.000 omicidi in un anno), l’inflazione (la più alta dell’America Latina) e la mancanza di beni di consumo di massa. Non si comprende come sia possibile governare così male e non pagarne il prezzo al momento di andare alle urne. Ma non è un fenomeno inedito. Perón non scese mai sotto il 70% di popolarità anche se fece sprofondare l’Argentina nella miseria. La Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini hanno seguito identico destino, innamorate di due turpi leader che le portarono alla disfatta. È una delle mille varianti della “Sindrome di Stoccolma” o della “Donna maltrattata”. 

Il terzo mistero, in rapporto con il precedente, è il più strano di tutti: perché Hugo Chávez resta fedele a un’alleanza strana con Iran, Siria, Bielorussia, Corea del Nord e altri Stati universalmente ripudiati? Perché ha appoggiato il dittatore Gheddafi fino all’ultimo giorno della sua tirannia? Secondo quanto denunciato da Israele, il Venezuela aiuterebbe l’Iran nel progetto di costruire armi nucleari. Che senso ha portare il Venezuela nel pericoloso vespaio del Medio Oriente? Forse Fidel Castro, padre e maestro magico di Hugo Chávez, gli ha trasmesso la passione per le avventure internazionaliste e il sogno di costruire un’alleanza capace di sconfiggere l’Occidente. Se Chávez valutasse i fatti serenamente – come chiedere le pere a un olmo – si renderebbe conto che il suo mentore caraibico in oltre mezzo secolo di deliranti battaglie è riuscito soltanto a sotterrare migliaia di cubani nei cimiteri africani, luogo agreste propizio alle sue folli fantasie di guerriero planetario. I misteri sono così. Irrazionali. 

La nuova morte di Fidel Castro

Periodicamente si diffonde la voce della morte di Fidel Castro. È diventata quasi un’abitudine. I mezzi di comunicazione di tanto in tanto mettono in primo piano la possibilità della sua prossima morte e si preparano per il grande funerale. Questa volta “la notizia” è partita dal Venezuela e sembrava verosimile. Fidel era in assoluto silenzio da diversi mesi, si diceva che questa cosa era la conseguenza di un grave episodio cerebro – vascolare che lo aveva reso moribondo. Stiamo parlando di un uomo di 86 anni, quindi la notizia non era per niente sorprendente. Nella sua situazione, non è tanto strana la sua morte, quanto l’ostinata insistenza a restare vivo. Sembrava una buona idea morire proprio nel cinquantesimo anniversario della Crisi dei Missili. Una preziosa coincidenza storica.

Alla fine di tutto sappiamo che il suo mausoleo è pronto nel cimitero di Santa Ifigenia, a Santiago de Cuba, 765 chilometri dall’Avana, molto vicino alla tomba che conserva i resti mortali di José Martí. Si sa, anche, che il previdente Raúl Castro ha già scritto il comunicato stampa e ha pronta la liturgia di un così atteso decesso. Se c’è una cosa che non lo prenderà di sorpresa, è proprio la morte del fratello. Lui è una persona organizzata. È sempre stato dipendente da Fidel e sarà così fino all’ultimo. Non ignora che la sua esistenza è stata plasmata da Fidel da quando era un adolescente. Quando Raúl pensa o dice che “deve la vita a Fidel” né è proprio sicuro. Fidel “l’ha fatto” da capo a piedi, come lo scultore che intaglia una figura di legno. Come Geppetto fece Pinocchio.

Probabilmente, prima il feretro sarà vegliato all’Università dell’Avana o in Piazza della Rivoluzione. La guardia d’onore sarà composta da alcuni dei più importanti veterani della Sierra Maestra ancora in vita. Subito dopo, il cadavere percorrerà la strada centrale dalla capitale fino a Santiago de Cuba, la città dalla quale partì per prendere il potere, il primo gennaio del 1959. Fidel, molto prudente, impiegò una settimana per fare quel viaggio circondato da una folla entusiasta. Per rifare quel percorso, da morto, coperto dalla bandiera cubana, impiegherà meno tempo, ma sarà ugualmente una marcia lenta. Basta vedere il rituale per verificare che i morti, ovunque, si muovono sempre lentamente. All’interno della scenografia rivoluzionaria, quell’ultimo atto, carico di simbolismi, ha una certa importanza. Genio e personaggio, mai detto fu migliore, fino alla sepoltura.  

Non ha senso supporre che Raúl Castro nasconderà la morte di suo fratello. Con quale obiettivo? Ha ben salde in mano le redini del potere. Quando accadrà, poche ore dopo l’annuncio dato dal generale – presidente, le emittenti radio cominceranno a suonare marce militari e temi funebri, mentre un annunciatore costernato proclamerà con voce grave l’ora in cui il portavoce del governo, o lo stesso Raúl, si rivolgerà alla nazione per fare un annuncio importante. Tutti ne intuiranno il contenuto, e la notizia, debitamente filtrata, sarà raccolta da tutte le agenzie di stampa internazionale.  

Da un punto di vista psicologico l’evento riveste molta importanza. Tre generazioni di cubani sono nate e cresciute all’ombra di Fidel. Anche se tutti attendono la sua morte, la notizia sarà un bel colpo e il regime farà tutto il possibile per sottolineare il dolore della popolazione, come accadde in Corea del Nord alla morte di Kim Il Sung o in Spagna dopo la scomparsa di Franco. Il dolore, pensano, serve a unire le masse.

Che cosa accadrà, allora? Senza dubbio continuerà, inesorabile, il processo di abbandono e di negazione del caudillo morto. Accade sempre. Se non lo fa lo stesso Raúl, lo farà il suo successore. Stalin, che era Dio in Terra nella vecchia URSS, morì nel marzo del 1953 circondato da innumerevoli promesse di adesione eterna ala sua memoria. La sua gloria durò solo fino al febbraio del 1956. Nel corso del Ventesimo Congresso del Partito Comunista fecero a pezzi la sua memoria. A Fidel accadrà lo stesso.

La Moringa di Fidel

Fidel Castro si è innamorato della Moringa. È un amore crepuscolare. A 86 anni, come nei boleri, ha trovato una nuova ragione di vita. La Moringa è una pianta miracolosa che proviene dall’India. È una fonte inesauribile di proteine e minerali che cresce quasi senza acqua e in ogni tipo di terreno. Perché la Moringa non abbia fatto prodigi in India è una domanda scomoda che il vecchio Comandante non si pone. Fidel è un uomo di risposte, non di domande. Non conosce il dubbio, caratteristica tipica degli agenti della CIA. Fidel è sicuro di aver trovato finalmente la pallottola d’argento capace di eliminare con un colpo solo  tutti i mali economici che affliggono il paese. Sarà la sua eredità per una nazione che ha guidato per tre generazioni, anche se nel capitolo finale è coadiuvato dal fratello Raúl, che in tutti i sensi continua a essere il minore.

Non è la prima volta che Fidel è illuminato da intuizioni geniali. L’economista Marzo Fernández, fuggito dal manicomio alcuni anni fa, sintetizzò molto bene la lista di scoperte portentose dovute all’iniziativa di Fidel: un semino che cresceva persino nello spazzolino da denti; il riso IR8; il caffè Caturra che non aveva bisogno di ombra, acqua e terra, perché, come l’idra, attecchiva miracolosamente persino nelle pietre; una meravigliosa banana coltivata con i microjet; un tipo di allevamento con mucche generose che davano fiumi di latte e tonnellate di carne che non dette i risultati sperati, ma almeno lasciò ai cubani la sola statua esistente al mondo dedicata a una mucca, la gloriosa Ubre Blanca, insieme a un toro da monta ambiguamente chiamato, Rosa Fe pure lui venerato, che morì prestando servizio, tra le braccia amorose di un allevatore dopo la millesima eiaculazione rivoluzionaria.

Perché continuare? La rivoluzione cubana ricorda la versione caraibica de Il gabinetto del Dottor Caligari o l’ambulatorio del Dr. Frankenstein. La società cubana è un laboratorio sperimentale a disposizione di un tipo bislacco e pieno di immaginazione, collerico e autoritario, che da oltre mezzo secolo è alla ricerca di un artificio che porti improvvisamente fama e prosperità per l’azienda di sua proprietà chiamata Cuba. Fidel è un personaggio che si è riservato la capacità esclusiva di prendere iniziative. Lui stabilisce quali sono le necessità e di conseguenza trova le soluzioni. Soltanto lui, scopre le opportunità e decide di sperimentarle.  Per questo, ma anche per altri motivi, il regime cubano è un totale fallimento. Se dobbiamo credere ai discepoli di Vilfredo Pareto – e ci sono buoni motivi per tenere in considerazione questo straordinario economista italiano – il 20% della società possiede la forza per dare impulso al restante 80%. È da questa energica quinta parte che proviene la maggioranza delle iniziative. Questo vuol dire che in un paese come Cuba, Fidel Castro si è impadronito delle facoltà creative di oltre due milioni di persone, condannandole a un’obbedienza passiva e a seguire i suoi più deliranti capricci. Tutto ciò spiega (in parte) la miseria e la disperazione che imperano in questa povera nazione, dalla quale i giovani vogliono fuggire a bordo di qualunque cosa perché, vista l’esperienza, sono incapaci di credere che un giorno potranno ottenere una migliore qualità della vita.

Raúl Castro non ignora queste cose. Lui sa che le iniziative di suo fratello sono responsabili di buona parte del fallimento economico del paese, ma la sua autorità non è sufficiente a fermarlo. Ha ubbidito al suo volere ciecamente per tutta la vita e questo comportamento è diventato un abito mentale. In ogni caso, Raúl è un despota diverso. Amministra il disastro, ma non lo provoca. Vuole mantenere il potere politico a ogni costo e vuol copiare il modello vietnamita, anche se non è dato sapere che cosa sia questo aborto. Mi raccontano che Raúl ha commentato la storia della Moringa con un commento malinconico e impotente: “Sono cose di Fidel”.

LA CUBA DI RAÚL CASTRO: IL LATO PEGGIORE DEI DUE MONDI

Pubblicado su Letras Libres – Messico e Spagna – Gennaio 2011

Raúl Castro ha convocato il Sesto Congresso del Partito Comunista Cubano. È sicuro di poterlo dirigere e controllare secondo la sua volontà. A Cuba non esiste potere più grande del suo, anche perché rappresenta pure una mezza dozzina di generali per mezzo dei quali controlla l’esercito e la polizia, aiutato dal figlio Alejandro Castro Espín, un colonnello dei servizi segreti formato nella scomparsa Unione Sovietica e presunto erede di questa dinastia di militari.

E Fidel? Fidel conserva soltanto un ruolo simbolico e passa il tempo giocando al grande statista internazionale, preoccupato per lo scoppio di una guerra nucleare scatenata da Stati uniti e Israele contro l’Iran, o per il prossimo omicidio di qualche amico del socialismo del XXI secolo perpetrato dalla CIA. Trasformato in una sorta di Cassandra caraibica, profetizza ogni catastrofe. Nessuno bada a quel che dice, ma lui si preoccupa teneramente per il benessere dei suoi figli rivoluzionari. Raúl, nel frattempo, finge di obbedirgli e, ossequiosamente, ripete come un mantra che le sue iniziative, in realtà, sono tutte di Fidel, anche se non è per niente vero.  

È stato vero in passato, ma adesso non è più così. È una tragedia che di solito capita agli anziani quando le loro facoltà si deteriorano in modo evidente. Persone che fino a ieri si presentavano come fedeli subordinati, smettono di ascoltarli. Tuttavia, periodicamente, Fidel incontra Hugo Chávez per impartirgli lezioni su tecniche di sopravvivenza politica e per pianificare la conquista del pianeta, come se fossero due sinistri personaggi usciti da un fumetto di Batman. Chávez, al contrario di Raúl, mantiene la sua infinita ammirazione per il Comandante e si considera suo figlio putativo ed erede morale.

In ogni caso, il Sesto Congresso avrà luogo nella seconda quindicina di aprile del 2011. La sua funzione sarà quella di legittimare la volontà di Raúl. Ed era ora. Il Quinto si è celebrato 13 anni fa, nel 1997. Il quarto si è tenuto nel 1991. Secondo lo statuto del Partito, dovrebbe tenersi un congresso ogni cinque anni, ma i fratelli Castro non seguono le regole e li convocano solo quando serve ai loro scopi. Cosa accadrà nel prossimo? Vediamo a tal proposito di raccontare cosa è successo nei due congressi precedenti per tentare di capire il futuro. In fin dei conti, attori e copione sono quasi identici.

I congressi precedenti

Il congresso del 1991 ha coinciso con la fine del marxismo-leninismo. È stato una cerimonia rituale contro la perestroika, volta ad adattare il regime cubano alla nuova realtà. Nel 1989 i tedeschi avevano abbattuto il muro di Berlino, mentre cadeva a pezzi tutto il mondo comunista sorto dopo la Seconda Guerra Mondiale. In quel congresso, celebrato dopo vent’anni, Fidel Castro, dopo aver proclamato quello che da allora si chiama “periodo speciale”, affrontando il giudizio silenzioso della classe dirigente e di buona parte del paese, ratificò la sua adesione al comunismo ortodosso e assicurò che Cuba “sarebbe sprofondata nel mare” prima di abbandonare la sua ideologia. Con la fierezza che lo contraddistingue, sancì la fine del Congresso con le grida rituali in favore del marxismo-leninismo e con il consueto “Patria o morte!”.

La fine del sussidio sovietico, calcolato in una cifra attorno ai 5.000 milioni di dollari annui, obbligava il governo a fare alcune concessioni di fronte alla crisi che attraversava l’Isola. Il collettivismo aveva dimostrato la sua inefficacia e il livello produttivo del paese era tremendamente basso. Cosa si poteva fare? Il Congresso decise di accettare alcuni investimenti stranieri, ma solo in società con il governo cubano. Se qualche investitore straniero voleva beneficiare della mano d’opera cubana o di un mercato protetto, doveva associarsi allo stato comunista per sfruttarli insieme. Il governo inserì come suoi rappresentanti in queste imprese miste numerosi militari in pensione dei servizi segreti, per premiare i più fedeli uomini di partito, e come conseguenza della solita paranoia politica.

Fidel Castro assicurò che sotto la sua guida la società cubana avrebbe presto recuperato gli indici di consumo che un tempo erano stati garantiti dal rapporto privilegiato con l’Unione Sovietica. Nonostante tutto, le mancanze alimentari divennero preoccupanti: fame e denutrizione fecero contrarre a circa 60.000 persone neuriti ottiche e neuriti periferiche, e molti cubani rimasero ciechi. Il Comandante si mise personalmente alla guida di un così detto “piano alimentare” che avrebbe dovuto risolvere il problema del cibo in appena due anni. Il governo assicurava che in cinque anni Cuba avrebbe superato la crisi e il paese si manteneva come una riserva ideologica comunista per il giorno in cui il pianeta avrebbe ripreso i cammino del socialismo. L’opposizione descrisse l’esperimento come la creazione di “un parco giurassico del marxismo-leninismo”.

Le linee guida del piano di sviluppo prevedevano di potenziare l’industria zuccheriera, sfruttare intensamente il nichel, creare una grande  infrastruttura alberghiera per ricevere milioni di turisti (cosa avversata per decenni per evitare la contaminazione morale), ed esportare in maniera massiccia prodotti di alta tecnologia medica creati nei laboratori dello Stato. Allo stesso tempo, il governo favoriva l’invio di rimesse dall’estero, depenalizzava il possesso di dollari e facilitava le visite degli emigranti che fino a quel momento erano stati considerati traditori.

Le cose non sono andate secondo le previsioni. L’industria zuccheriera ha subito un tracollo, le esportazioni di nichel, concesse a un’impresa canadese, dipendevano dal prezzo oscillante di quel minerale e non producevano le entrate sperate, le vendite di prodotti biotecnologici non sono state esaltanti e anche il turismo – pur con una crescita graduale – non portava grandi introiti al paese, perché quasi tutte le materie prime dovevano essere acquistate all’estero usando moneta forte. In certi casi, si dovevano importare zucchero, banane e altra frutta dalla Repubblica Dominicana, mentre l’agricoltura cubana non serviva neppure per i prodotti tradizionali.  

Al tempo stesso, la mancanza di manutenzione, i frequenti uragani e l’incuria di alcuni funzionari ai quali sembrava non importasse niente del deterioramento crescente di città e campagne, distruggevano il paesaggio nazionale in maniera tale che i turisti erano soliti parlare di “un paese bombardato dove non c’era stata nessuna guerra”. Un saggista e narratore cubano, Antonio José Ponte, ha scritto un magnifico testo intitolato Un arte de hacer ruinas (Un’arte di fare rovine) che dopo è servito come base per girare un premiato documentario sulla distruzione progressiva del paese.

Nel 1997, quando si tenne il Quinto Congresso, era già evidente che la formula castrista per sostenere il marxismo-leninismo non aveva dato risultati pratici. Sei anni dopo la fine del sussidio sovietico e delle nuove linee guida economiche, Cuba era ancora impantanata nella miseria, anche se era riuscita a fermare la caduta dell’infima qualità della vita che sperimentava la società. Poco prima che cominciassero i lavori del Congresso, il governo chiese ai militanti di esprimere le loro lamentele, in una sorta di esercizio del “centralismo democratico dal basso verso l’alto” che regola le relazioni nel Partito. Decine di migliaia di militanti si azzardarono a esprimere le loro opinioni, screditando il capitalismo di Stato, e chiedendo libertà per creare imprese o per uscire e entrare dal paese senza dover attendere un’autorizzazione governativa. Se gli stranieri potevano possedere imprese sull’Isola, sebbene in società con il governo, perché i cubani non dovevano avere lo stesso diritto?

Fu tutto inutile. Il Quinto Congresso del Partito confermò la linea ortodossa, Fidel Castro ribadì che il paese non si sarebbe spostato di un millimetro dal marxismo-leninismo, allontanò dal potere i militanti che avevano mostrato con eccessiva convinzione tendenze riformiste, e predisse la prossima fine delle società capitaliste come conseguenza delle loro contraddizioni interne. Non si prese neppure la briga di spiegare perché fosse fallito il piano alimentare, perché stesse crollando l’industria zuccheriera e dove fossero finite le promesse di recupero economico fatte nel 1991. La società cubana nel suo complesso, e migliaia di militanti comunisti in particolare, si sentirono ingannati e, in molti casi, traditi. Scappare dal paese in ogni modo possibile, divenne l’obiettivo principale di milioni di giovani.

Nell’estate del 2006, Fidel Castro si ammalò gravemente e lasciò provvisoriamente il potere al fratello Raúl, erede designato dal 1959, Secondo Segretario del Partito ed eterno Ministro della Difesa. Due anni dopo, in seguito a una situazione di salute che andava progressivamente peggiorando, Fidel si rese conto che non sarebbe potuto tornare al potere e rinunciò alla presidenza, anche se, senza dubbio, mantenne una grande influenza nelle decisioni strategiche del paese.  

Apparentemente, Raúl doveva occuparsi solo di amministrare la dittatura, mentre definire i connotati ideologici del regime sarebbe rimasto un compito di Fidel. Questa teorica ripartizione di compiti venne smentita nella pratica dalla persecuzione di alcuni noti uomini fidelisti. Tre dei più importanti funzionari governativi – Carlos Lage, Secondo Vicepresidente del Consigli di Stato, Felipe Pérez Roque, Ministro delle Rapporti con l’Estero, e Fernando Remírez de Estenoz, suo Viceministro, i primi due nella ristretta cerchia degli intimi di Fidel – furono allontanati dai loro incarichi e umiliati. I tre funzionari vennero accusati pubblicamente di attività riformiste contrarie alle direttive del governo e di comportamenti corrotti. In realtà, Raúl Castro voleva muovere i fili del potere tramite suoi uomini fidati: un pugno di militari che sono al suo fianco da decenni. I fidelisti erano un ostacolo per i suoi piani.  

Il prossimo Congresso

E siamo alla vigilia del Sesto Congresso. Cosa accadrà? Probabilmente, niente di significativo, nonostante tutto il gran parlare che si sta facendo. Identici leader con le stesse idee producono sempre simili risultati. Il governo ha messo in circolazione un documento di 32 pagine dove descrive i nuovi piani economici e ribadisce in modo chiaro la sua posizione in relazione al modello comunista: l’essenza del sistema continuerà a essere il collettivismo, la proprietà statale dei mezzi di produzione e la pianificazione centralizzata da parte dei burocrati di Partito. Ratificano esplicitamente la vecchia strategia nemica delle libertà economiche. Non si degnano neppure di menzionare le libertà civili e politiche.

Sarà consentito, questo è certo, il lavoro privato, sempre che rientri tra le 178 modalità possibili: affittare vestiti da sposa, fare il pagliaccio nelle feste infantili, riparare ruote di auto, foderare bottoni e tanti altri strani mestieri. Si potranno costituire microimprese familiari, o con pochi lavoratori a contratto, dato che l’obiettivo non è farli crescere e ottenere benefici, ma assorbire la mano d’opera disoccupata che il governo pensa di lasciare senza lavoro statale.

Nei prossimi mesi, 500.000 lavoratori verranno licenziati, ma in meno di tre anni Raúl Castro pensa di aumentare il numero a 1.300.000, il 25% della forza lavorativa. Il generale e i suoi adulatori sostengono che le piante organiche sono sovradimensionate e che molti impiegati inutili ostacolano il lavoro delle imprese, mentre la società soffre la “sindrome del piccione” e attende dal papà – Stato la soluzione di tutti i problemi, un’accusa sorprendente dopo mezzo secolo di implacabile persecuzione nei confronti di ogni iniziativa individuale. Raúl vuole che l’economia divenga produttiva dopo averla liberata dal peso morto degli operai di cui si può fare a meno.

Cuba è una società annientata da mezzo secolo di collettivismo, priva di capitale, di materie prime e senza esperienza. Non è pensabile che con un decreto presidenziale si possa creare dal niente un nucleo importante di lavoratori privati o associati a piccole imprese, che saranno sottoposti a una severa pressione fiscale e a dure limitazioni per impedire la loro crescita ed eccesivi guadagni. Si tratta di un’idea bislacca che fa parte delle nuove fantasie rivoluzionarie di un signore che ha un’idea molto vaga su come si produce, si spreca e si conserva la ricchezza.

Cosa vuol fare, in definitiva, Raúl Castro? Il generale – presidente ha due obiettivi fondamentali intimamente legati tra loro. Prima di tutto vuole garantire la successione all’interno del sistema alla sua stessa famiglia. È falsa l’idea che i Castro non siano interessati al futuro di Cuba dopo la loro morte, perché hanno un senso molto forte della loro storia personale e di quella del paese. Hanno concepito una narrazione fantastica nella quale collegano la guerra d’indipendenza di fine secolo XIX con l’avventura della Sierra Maestra. Fidel si considera l’unico erede di Martí e Raúl si vede come l’unico erede di Fidel. Vogliono che il governo rivoluzionario non abbia fine. Pretendono che la generazione dei figli dei dirigenti raccolga il bastone del comando e continui l’opera rivoluzionaria.

Ma, per raggiungere questo obiettivo, Raúl crede che il governo debba fare in modo che la società cubana divenga più produttiva e competitiva. Raúl non ignora che la situazione economica del paese è terribile, circostanza che ha prodotto un divario incolmabile tra la stragrande maggioranza degli abitanti, la cupola dirigente e la mitologia rivoluzionaria. Nel suo primo discorso da capo di Stato, si chiese infastidito per quale motivo il latte fosse così poco, al punto che i bambini cubani potevano berlo solo fino a sette anni. Ma questa domanda poteva allargarla agli aspetti fondamentali della convivenza civile in un paese moderno: sono scarsi e di infima qualità i generi alimentari, l’acqua potabile, i vestiti, le calzature, le abitazioni, il trasporto, la somministrazione di elettricità e le comunicazioni. Raúl teme, a ragione, che una volta morti lui e Fidel, nessuno potrà evitare che i successori al potere, con le buone o con le cattive, abbattano “l’opera rivoluzionaria” come conseguenza della miseria generalizzata che soffre la popolazione.  

Come si può risolvere o rendere sopportabile l’immenso problema del fallimento materiale del paese? È ovvio: con un sistema economico più produttivo. Persino Raúl Castro, dopo mezzo secolo di assurde chiacchiere rivoluzionare, comprende che le società sviluppate e prospere, dotate di un buon livello di vita, hanno raggiunto questa meta come conseguenza del loro apparato produttivo. Vivono meglio perché producono di più e a prezzi competitivi. Il problema, però, visto dalla prospettiva di Raúl e dei suoi intimi camerati, è quello di rendere più efficiente il sistema comunista in modo tale che la società cubana accetti di buon grado la successione all’interno della rivoluzione quando sarà scomparsa del tutto la generazione dei padri fondatori.

Il fallimento della riforma

Ma dalle querce non crescono i limoni. Il comunismo è improduttivo per natura. La pianificazione centralizzata, la proprietà statale dei mezzi di produzione, il controllo dei prezzi e l’assenza di libertà individuali per creare e accumulare ricchezza, inevitabilmente conducono all’improduttività e alla povertà.

Inoltre, il patto sociale tra i governi comunisti e le società non è basato sulla promessa di una gestione pubblica efficace e di risultati materiali apprezzabili (sono categorie del mondo capitalista), ma in una distribuzione egualitaria dei pochissimi beni e servizi che si producono, nel condannare e farsi beffe di chi scopre e possiede migliori sistemi di vita. Per quanto sia deplorevole, questo è il comunismo reale.  

Quando Fidel governava, il paese viveva in maniera miserabile, ma la difesa retorica della sua gestione amministrativa si basava su tre punti fermi: tutti avevano un lavoro, potevano accedere all’educazione e ai servizi sanitari. A Fidel non importava che le imprese perdessero denaro, che produzione e produttività fossero minime, ma che tutti i cubani avessero un posto di lavoro e ricevessero un salario, per simbolico che fosse. A Fidel non interessava neppure che il sistema sanitario sprofondasse in ospedali privi di anestesia e senza fili di sutura, oppure che il sistema educativo fosse carente di buoni maestri e di materiale didattico. I servizi potevano essere pessimi, ma c’erano, e lui se ne vantava costantemente. La legittimità della dittatura dipendeva da questo discorso, che si è trasformato in un formidabile strumento propagandistico.

D’altro canto, visto che il tessuto produttivo era irrimediabilmente carente, esistevano solo due modi per giustificare un sistema di vita abominevole: l’embargo economico statunitense e,  paradossalmente, i benefici dell’austerità rivoluzionaria. Perché un buon rivoluzionario avrebbe dovuto aspirare a possedere un numero maggiore di beni materiali? Il consumismo non era più un desiderio legittimo dei lavoratori, diventava un peccato tipico della perversa avidità capitalista, istigato dall’imperialismo, dalle multinazionali e da altri mostri di simile portata. I consumatori, o coloro che aspiravano a diventarlo, erano qualificati come amanti della paccottiglia (pacotilleros)  storditi dal capitalismo corruttore.

La proposta di Fidel era crudele, ma almeno era sostenuta da un sofisma che possedeva una certa coerenza. Quella di Raúl è una pura e semplice assurdità: vuole che un certo numero di cubani produca da capitalista, ma all’interno di un sistema  essenzialmente comunista, abbandonando, di fatto, il patto sociale tra lo Stato e gli individui preconizzato dalla retorica marxista, mentre rinuncia all’egualitarismo, accetta il sorgere della disuguaglianza e il consumismo nello stile di vita dei cubani.  

Perché difendere un modello di stato comunista se la forma di governo si allontana completamente dai presupposti marxisti – leninisti? Il comunismo ha una logica interna: il Partito costruirà una società splendida, il paradiso del proletariato, dove i mezzi di produzione saranno collettivi e le persone, quando giungerà la fase superiore del comunismo, come profetizza Marx nella Critica al Programma di Gotha, “(lavoreranno) ognuno secondo le sue capacità, (e riceveranno un salario) ognuno secondo le sue necessità”. Per arrivare a questo punto, naturalmente, bisogna attraversare la scomoda fase della “dittatura del proletariato”, per strappare dal cuore delle persone quei maledetti usi e costumi così  radicati dopo diversi secoli di feudalesimo e capitalismo.

Niente di tutto questo resta in piedi con le riforme di Raúl. Secondo il suo ragionamento, dopo aver rinunciato alla “sindrome del piccione”, molti cubani si occuperanno di guadagnarsi la vita secondo il loro talento, la fortuna e le risorse, al margine dello Stato, e otterranno i migliori risultati possibili, anche se il loro riscatto economico li allontanerà dal sistema generale di vita della nazione.

La domanda sorge spontanea e non si può tacere: se l’obiettivo non è più quello di edificare una società comunista che segua i postulati della dottrina politica, perché si conserva il modello di Stato del partito unico e la dittatura del proletariato previsti dal marxismo – leninismo come formula per costruire quel modello di convivenza?

Non credo che durante il Sesto Congresso del Partito Comunista Cubano nessuno formulerà certe scomode domande. Come fecero nel Quarto e nel Quinto,i delegati applaudiranno, ripeteranno slogan e appoggeranno senza protestare le decisioni di Raúl Castro, ma tra le persone che assisteranno ai lavori e all’interno della società cubana sarà a tutti chiaro che la rivoluzione comunista è miseramente fallita e che sarà impossibile tenerla a galla in maniera permanente dopo l’estinzione della generazione di chi, nel 1959, mise in moto il  processo.   

I pochi comunisti ortodossi che restano a Cuba si sentiranno traditi da Raúl Castro, mentre la maggior parte del popolo penserà che il fratello di Fidel porta con sé il lato peggiore dei due mondi: un comunismo senza generosità clientelari e un capitalismo con le mani legate che non permette un reale sviluppo individuale e collettivo.  Non esiste un popolo latinoamericano più disperato e disilluso di quello cubano. Tutto ciò è molto triste.

Un altro che è disposto a morire

A Cuba da alcuni giorni Juan Juan Almeida si è dichiarato in sciopero della fame fino a quando Raúl Castro non gli permetterà di lasciare l’Isola per alcune settimane per farsi visitare da un medico in Belgio e per poter abbracciare la sua famiglia, oggi residente nell’esilio. Il padre di Juan Juan era il generale Juan Almeida, uno dei pochi neri che ha accompagnato Fidel Castro in tutte le sue avventure rivoluzionarie. Morì l’anno scorso e lo seppellirono con grandi onori.

Juan Juan, il figlio, è molto malato. Soffre di una rara malattia delle ossa e delle articolazioni che a Cuba non sanno come curare. I belgi, invece, hanno sviluppato un efficace trattamento. Raúl Castro che conosce Juan Juan da quando era un bambino, non vuole lasciarlo andare all’estero per cercare di curarsi. Desidera vederlo morire sull’Isola. Perché? Non si sa con certezza, ma la spiegazione confidenziale che ha fornito un ambasciatore cubano è che si tratta del capriccio criminale di una donna che odia Juan Juan. Una donna per la quale Raúl Castro ha una speciale predilezione.

Uno dei problemi più gravi di questo paese è che i fratelli Castro sono i padroni della vita e della morte di tutti i cubani. Fidel decise che la dottoressa Hilda Molina, un’eminente neurochirurga, non sarebbe dovuta andare in Argentina per ricongiungersi al figlio e al nipote perché il suo ingegno apparteneva alla rivoluzione. Fu così che la tenne sequestrata per oltre un decennio fino a quando non si stancò e concesse la sua libertà come dono in occasione del matrimonio di Cristina e di Néstor Kirchner. Raúl si comporta allo stesso modo. Incarcera, scarcera, lascia morire o salva chi ritiene opportuno. A Cuba non esiste altra legge se non la sua volontà. Non è perché Juan Juan Almeida è il figlio di un “eroe” e per questo motivo non può andare all’estero. In Florida vivono due figlie di Fidel. In realtà, non c’è un leader rivoluzionario che non abbia parenti stretti all’estero. Il problema è un altro. Questo è il tipico atteggiamento degli schiavisti.

Trionfa Chávez. Si consolida Capriles

Mi è toccato passare la giornata elettorale in un popolare ristorante di Miami circondato da venezuelani convocati da Alexis Ortiz e Pedro Mena, due leader dell’esilio che rappresentano la Mesa de Unidad Democrática (MUD). Mi è toccato, persino, vedere molti venezuelani piangere di fronte al trionfo di Chávez, perché alcuni analisti politici li avevano convinti che questa volta l’opposizione sarebbe riuscita a sconfiggerlo. Tra l’altro, mezz’ora prima dell’apertura delle urne correva voce che i sondaggi assegnavano la vittoria a Capriles. Perché ha vinto Chávez, nonostante il suo pessimo operato come presidente? Vladimir Gessen, psicologo e politico venezuelano, ritiene che Henrique Capriles abbia perso le elezioni per non aver saputo o voluto mantenere la sensazione di unità nazionale con cui aveva vinto le primarie. 

Il mio pensiero è diverso, anche se questa opinione non va sottovalutata. A mio parere sono stati 4 i fattori decisivi pro Chávez:
• Chávez, con il suo caratteristico stile da caudillo latinoamericano, è entrato in sintonia emotiva con una parte sostanziale dei venezuelani. Fuori dal suo ambiente può sembrare un personaggio ridicolo, persino comico, ma in Venezuela molta gente lo percepisce come un fenomeno quasi religioso. 
• Ha creato una forte relazione clientelare con una parte dell’elettorato venezuelano che appartiene ai settori D ed E del paese. Come dimostrarono l’argentino Perón e il PRI messicano, si può governare male per molto tempo, ma essere ancora popolari e avere successo. Le classi sociali più povere sono i due terzi dell’elettorato venezuelano. Quello è il cantiere di voti chavisti e lo sarà fino a quando i poveri si attenderanno benefici dal pittoresco leader. 
• I notevoli vantaggi pre-elettorali di Chávez rendono molto difficile sconfiggerlo. È padrone di radio e televisione, mezzi di comunicazione che lo vedono protagonista unico. Per ogni minuto di televisione concesso a Capriles, Chávez ne aveva cinquanta. 
• Chávez possedeva e utilizzava risorse illimitate provenienti dal petrolio, tramite il PDVSA, suo grande finanziatore, oltre a tutte le strutture statali. 

In questa situazione, pare persino strano che un giovane politico latinoamericano, con modeste risorse e basso carisma, Henrique Capriles Radonski, abbia ottenuto il 45% del voto popolare, oltre sei milioni di venezuelani. Se la MUD manterrà l’unità dei democratici, e Capriles riuscirà a vincere lo sconforto prodotto dalla sconfitta, convincendo i venezuelani che è stato un successo portare quasi la metà del paese alla causa democratica, sarà la forza politica del futuro, pronta a governare il Venezuela. Il nuovo appuntamento elettorale è per il prossimo dicembre. Saranno elezioni regionali per comporre i parlamenti federali. Per l’opposizione sarà molto importante mantenere alcune zone di potere che già controlla e incrementare la sua influenza su altre, preparando il giorno in cui potrà conquistare la presidenza. Henrique Capriles, oggi molto noto, popolare e rispettato in tutto il paese, farebbe bene a continuare la campagna elettorale a beneficio dei candidati dell’opposizione, per aiutarli a vincere e per mantenere la sua leadership. Non è lontano il giorno del grande trionfo. L’opposizione ha il 45% dei voti. È solo questione di tempo. È quasi la metà del paese. Inoltre, esiste il problema della grave malattia di cui soffre Hugo Chávez. Quando Franco, già molto vecchio, agonizzava, gli spagnoli parlavano di “soluzione biologica”. In Venezuela può accadere qualcosa di simile. Non so se sarà la soluzione definitiva ma probabilmente sarà il punto di partenza della fine del chavismo. Il caudillo si porterà nella tomba il suo governo. 

Quel che il Papa ha visto a Cuba

Centinaia di migliaia di persone hanno visto il Papa a Cuba, hanno udito i suoi discorsi e contemplato ciò che è successo. Ognuno di questi testimoni, come è naturale, ha percepito la visita in maniera differente. Adesso interessa soprattutto sapere quale sia stata la percezione del Papa e del suo entourage. Questo è quel che ho potuto sapere da fonti ecclesiastiche (e non solo) che desiderano rimanere nel più totale anonimato. Alcune di queste fonti sono molto vincine al Santo Padre.

Primo. Benedetto XVI è rimasto molto sorpreso dall’enorme contrasto tra l’accoglienza messicana – allegra, libera, molto partecipata e spontanea -, in mezzo a una città viva ed economicamente vibrante, e le contratte cerimonie cubane, controllate dalla polizia politica, celebrate in un paese impoverito fino alla miseria, precedute da centinaia di detenzioni. Lo spettacolo orrendo di un giovane selvaggiamente picchiato da un poliziotto travestito da barelliere della Croce Rossa ha colpito il cuore del Papa che si è interessato personalmente per la sua sorte. In fin dei conti, il povero uomo aveva solo gridato “Abbasso il comunismo”, versione popolare dello stesso pensiero del Papa in viaggio verso Cuba, quando aveva dichiarato che il marxismo era un’ideologia fallita che doveva essere sepolta.

Secondo. Al Papa e al suo seguito è sembrato disdicevole che Raúl Castro pronunciasse a Santiago de Cuba il classico discorso stalinista da guerra fredda per cercare di giustificare la dittatura. Attendevano un messaggio di cambiamento e di speranza, non di reiterazione delle linee maestre del regime. Quel testo, insieme ai discorsi pronunciati dal cancelliere Bruno Rodríguez e dal vicepresidente con delega al settore economico, Marino Alberto Murillo, hanno convinto il Santo Padre che Raúl Castro è molto più interessato a mantenersi ancorato al passato che a preparare un futuro migliore per i cubani.

Terzo. La delegazione papale ha comprovato, con dolore, che la richiesta del precedente Papa, Giovanni Paolo II, fatta durante la visita compiuta 14 anni prima, che doveva servire a far perdere la paura ai cubani, era stata inutile. A parte alcune centinaia democratici oppositori, tenuti sotto assedio in maniera permanente, picchiati e a volte persino incarcerati, Cuba resta una società corrotta dalla paura. In ogni caso la manifestazione di paura più eclatante non è stata quella degli oppositori, ma di coloro che in apparenza sono fedeli al regime. La delegazione papale ha conosciuto molto da vicino il doppio linguaggio. Quando i funzionari ecclesiastici parlavano da soli con i politici cubani questi si mostravano aperti,  tolleranti e desiderosi di operare riforme profonde in campo politico ed economico. Uno di loro, in privato, è arrivato pure ad ammettere che a Cuba servirebbe un sistema democratico basato sulla pluralità dei partiti politici e le libere elezioni, per far avanzare la società verso la modernità, anche se i comunisti potrebbero rischiare di perdere il potere. Ma, quando si aggiungeva un’altra persona alla conversazione, o arrivavano i giornalisti, tornavano al discorso ortodosso più inflessibile e stalinista, ripetendo il copione ufficiale senza omettere neppure una virgola. Era uno spettacolo davvero penoso.  

Quarto. Il Papa e la sua comitiva hanno avuto la conferma di quanto già intuivano. La Chiesa cubana è divisa in due linee molto chiare: quella del cardinale Jaime Ortega, accomodante fino all’estremo e collaborazionista al punto di chiedere alla forza pubblica di far evacuare un tempio occupato da alcuni fedeli che volevano protestare contro la dittatura, ben sapendo che sarebbero stati detenuti e di sicuro maltrattati, e quella di vescovi come Dionisio García Ibáñez, che è stato ingegnere prima di essere ordinato sacerdote, ben più fermi nel contrastare il regime cubano. Mentre Jaime Ortega si limita a compatire alcune vittime del governo (ma non tutte),  Dionisio (pur continuando a essere amico del cardinale) e altri sacerdoti, come il famoso José Conrado Rodríguez, parroco in una chiesa di Santiago de Cuba, sono convinti che non ci sarà sollievo né riconciliazione tra i cubani fino a quando il regime non verrà pacificamente sostituito da una vera democrazia che tenga di conto delle opinioni di tutta la società e non solamente di un pugno di ultracomunisti avvinghiati alla ragnatela del passato.

Quinto. Il Papa ha comprovato che il suo coetaneo Fidel Castro è in peggiori condizioni fisiche e mentali di lui. Ha incontrato un vecchietto fisicamente invalido, mentalmente incerto e con gravi difficoltà comunicative. Un uomo fuori dal gioco. Il Papa, che è un uomo buono, ha pregato per lui. Come abitudine cristiana.  

Related Articles