Carlos Alberto Montaner era un grande scrittore cubano in esilio, uno scrittore che in Italia non veniva pubblicato perché aveva il torto di essersi schierato dalla parte sbagliata della storia, ergo dalla parte giusta dei diritti. Il suo unico libro edito nel Bel Paese non è uno dei più importanti anche se resta un buon romanzo, La moglie del colonnello (La mujer del coronel), uscito per la collana sudamericana di Anordest, tradotto da Marino Magliani, quando dirigevo quel settore della casa editrice trevigiana. Montaner, anticastrista convinto, fin dal 1959, recluso e prigioniero politico, rifugiato nell’ambasciata dell’Honduras, quindi esule a Miami; una vita tra gli Stati Uniti e la Spagna, fondatore di Radio Martí, scrittore infaticabile, in perenne lotta per il ritorno della democrazia a Cuba. Una lotta impossibile da vincere che ha combattuto fino in fondo, fino a pochi giorni fa, quando una malattia degenerativa ha avuto la meglio, fiaccandolo nel fisico e nel morale. Un ultimo articolo pubblicato dal Nuovo Herald riporta le sue dolenti dimissioni da columnista, da una pagina che scriveva da anni, un appuntamento fisso per commentare la politica mondiale, i fatti legati a quella Cuba che aveva dovuto abbandonare. Ho fatto venire in Italia Montaner diversi anni fa, sarà stato il 2012, per presentare La moglie del colonnello alle Isole Tremiti, in una location da sogno, raggiunta in elicottero, organizzatrice un’infaticabile Cristina De Vita, in seguito coautrice con il sottoscritto di Sogni e altiforni.
Era un uomo intelligente e colto, simpatico e affabile, Carlos; ricordo una cena a Foggia, con lui e la moglie Linda, la presentazione alle Tremiti, un pranzo sulla terrazza sul mare a scoprire un panorama stupendo, tra calette misteriose e rocce di granito, vicino alla villa che fu di Lucio Dalla. Carlos era un grande uomo che non si dava troppa importanza, non si prendeva sul serio, ma era stato candidato per il Premio Nobel della Letteratura e sarebbe stato il Presidente ideale per una Cuba libera e democratica, ricorda Zoé Valdés. È morto a Madrid senza aver più rivisto la sua Cuba che avrebbe voluto sapere libera; i cubani della diaspora lo piangono perché hanno perso un importante punto di riferimento. Io – che non lo sentivo da almeno dieci anni – posso dire di aver perso un amico, uno con cui avevo intessuto un dialogo stretto di condivisione ideologica, un uomo che poteva dare molto e che era in grado di insegnare politica, letteratura e storia. Carlos (bontà sua) mi aveva inserito in un volume antologico di autori cubani (El nuevo paredón), facendo tradurre un mio lungo articolo sulla situazione politica cubana, mi aveva invitato persino alla Fiera del libro di Miami, uno degli appuntamenti che ho mancato per il mio voler vivere in provincia, lontano da tutto, schiavo di un lavoro che mi ha fatto perdere occasioni importanti. Nonostante le troppe malignità e le illazioni fatte in Italia sul suo nome, resta un grande uomo, un sognatore, un punto di riferimento rappresentato dai suoi numerosi libri. Resta l’amaro in bocca nel vedere celebrati personaggi asserviti a un dittatore, inginocchiati nelle interviste compiacenti, uomini piccoli dei quali non voglio fare nomi, mentre in Italia pochi ricordano la scomparsa di Montaner. La storia giudicherà e non assolverà nessuno, magari quando non ci saremo, perché la verità non è semplice, la verità è frutto di ricerca, di impegno e approfondimento storico. Tutte qualità che Montaner aveva da buon insegnante universitario. Restano i libri, saggi e romanzi. Resta la memoria storica. Ciao Carlos, che la terra ti sia lieve.