La casa dalle finestre che ridono (1976) è un vero e proprio horror padano, un capolavoro assoluto del cinema fantastico, un cult della cinematografia italiana, interpretato dall’ottimo Lino Capolicchio, rimasto fuori dal cast di Profondo rosso. Avati gira questa pellicola per riprendersi dal disastro economico di Bordella, ne viene fuori alla grande con un’opera che va ben oltre le sue aspettative per restare nella storia del cinema horror italiano. Steve Della Casa, critico de La Stampa, ne parla in termini lusinghieri, così come la fanzine inglese Delirium va considerata estimatrice del film. La pellicola costa centocinquanta milioni, viene girata in cinque settimane e vince un premio al Festival del Cinema Fantastico di Parigi del 1979.
L’atmosfera horror è suggestiva sin dalle sequenze che accompagnano i titoli di testa: angoscianti canti di chiesa, un uomo orrendamente squartato a colpi di coltello – una sorta di San Sebastiano agonizzante – e appeso a un gancio che pende dal soffitto. Capiremo la macabra sequenza, che introduce a un clima macabro e inquietante, nel corso della storia. La fotografia di Rachini, tendente al giallo ocra, sfuma in un nebbioso colore indistinto nei momenti onirici e nei flashback, mentre si fa luminosa e nitida per accompagnare eccellenti piani sequenza di Avati che creano un clima torbido, angosciante e sospeso. Stefano (Capolicchio) è un giovane pittore chiamato dal sindaco (Tonelli) di un paese in provincia di Ferrara per restaurare un affresco realizzato da Buono Legnani, artista maledetto che pare morto suicida. Il dipinto, riportato alla luce dal lavoro di Stefano, sembra nascondere un mistero e raffigura il martirio di San Sebastiano tra due donne che ridono in modo inquietante. Legnani era un pittore del macabro, un regista horror ante litteram, perché amava ritrarre la morte e gli ultimi istanti di vita delle persone. Era noto come pittore di agonie e per coltivare la sua turpe passione si faceva aiutare da due sorelle incestuose. In paese si mormora che uccidesse i suoi modelli seguendo rituali appresi in Brasile – dove era emigrato in cerca di una non trovata fortuna -, facendosi aiutare dalle macabre sorelle. Muore un amico di Stefano (Pizzirani) che conosce troppi elementi del mistero, subito dopo fa una brutta fine una maestrina (Marciano) di cui il restauratore si è innamorato. Stefano si rende conto che le sorelle complici del pittore sono ancora vive e soprattutto che continuano a uccidere indisturbate. Una delle sorelle è la padrona della villa dove il ragazzo ha trovato alloggio, che si finge inferma, l’altra si nasconde addirittura sotto le vesti del parroco.
La Bassa Padana per la prima volta diventa teatro di atmosfere horror inquietanti, il regista dimostra che anche in un panorama composto da acque salmastre, sole e campagna verdeggiante si possono celare orrore e tensione. La casa dalle finestre che ridono non è certo un film sopravvalutato, come afferma certa critica poco attenta, anche se il ritmo è lento e la recitazione a tratti monocorde. Il minimalismo nostalgico mixato con la componente horror è l’elemento che rende la pellicola una pietra miliare del fantastico italiano. Il colpo di scena finale vale l’intera visione, mentre l’originalità di storia e ambientazione sono fuori discussione. Il clima dathriller psicologico è ben costruito da una serie di minacciose telefonate anonime, dal mistero di una casa dalle finestre che ridono, residenza del pittore maledetto, e da elementi morbosi di derivazione gotica. L’ambientazione padana – tra il Delta del Po, la laguna di Comacchio e le campagne ferraresi – è la cosa più bella di un film sospeso tra elementi romantici e parti di notevole suspense. Una musica dolce, velata di nostalgia, composta magistralmente da Tommasi, funge da colonna sonora indimenticabile, creando un palese contrasto tra la solarità mediterranea degli ambienti e l’inquietudine sinistra della storia. I personaggi sono delineati con cura, persino il pittore maledetto sembra il protagonista di un romanzo horror inglese dell’Ottocento. L’ambiguità è un elemento fondamentale di ogni personaggio e serve a non comporre ritratti monodimensionali. Avati traccia una via tutta italiana al gotico, raccontando una fiaba nera e surreale con toni grotteschi e macabri, da vero e proprio Lovecraft padano. Il film trasmette inquietudine e paura soprattutto per le cose che non vengono mostrate, per un’ambientazione curata e per aver saputo attingere a piene mani dal patrimonio leggendario delle campagne emiliane. Alcune parti oniriche soffuse di nebbia e di ricordi presentano il pittore maledetto grazie a inquietanti flashback. Terribili soggettive accompagnano i protagonisti lungo scale buie, macabre soffitte e scale malandate. Porte che cigolano, finestre che sbattono, colpi di vento improvvisi ricordano atmosfere gotiche, mentre la voce del pittore torna dal passato tramite un vecchio magnetofono. Il senso del film sta tutto nel desiderio del pittore maledetto di mostrare “la vera crudeltà di un martirio, la morte con tutto il suo orrore”. San Sebastiano è contornato da due volti di donne ghignanti, le vere componenti malefiche, due sorelle nere che tengono in pugno un intero paese. L’horror è sempre suggerito, la parte macabra è confinata in un paio di scene finali che mostrano esecuzioni feroci e sanguinarie. Il corpo del pittore si trova ancora in soffitta, conservato in formalina dalle sorelle, utilizzato per proseguire rituali di morte. Avati inserisce anche una storia d’amore tra il pittore e la maestrina per stemperare la paura in cui sprofonda lo spettatore. La ragazza fa una brutta fine e la sequenza della sua morte, dopo un tentativo di violenza carnale, è una delle parti più crude del film. Il pittore trova il suo corpo accoltellato e appeso a un gancio che pende dal soffitto. Un’altra sequenza per palati forti è l’accoltellamento dello scemo del paese da parte delle sorelle: l’uomo muore dissanguato sotto colpi sferzanti di coltello accompagnati da sadiche risate. Le sorelle insanguinate e vestite di bianco sono una visione orribile, ma il finale è il momento più cupo, quando il malefico parroco svela il travestimento esibendo un seno da vecchia sotto la tonaca, mentre il pittore ferito mostra una smorfia di orrore. La sirena della polizia in sottofondo rivela che forse l’orrore è finito, ma il regista termina con la visione della chiesa e una mano inquietante che si appoggia a un albero. Il film nasce da un fatto che traumatizzò il regista. Un bombardamento scoperchiò la bara del parroco del paese dove Avati era sfollato in tempo di guerra con la famiglia. I miseri resti cadaverici fecero capire a tutti che si trattava di una donna. Gli attori sono bravi, soprattutto Lino Capolicchio nei panni di uno spaesato protagonista e Francesca Marciano, che ha lasciato la recitazione per dedicarsi con successo alla sceneggiatura. Bene anche Gianni Cavina, ubriacone che fa una brutta fine per aver parlato troppo e Giulio Pizzirani, amico fedele suicidato dalle sorelle. Cinema nero padano che sconfina nell’horror, in equilibrio perfetto tra realismo e ben dosati effetti macabri. Tecnica di regia straordinaria, poetici piani sequenza che si alternano a disturbanti soggettive, elementi di grottesco diffusi a piene mani, cura per i particolari e sopraffino senso estetico. Location padane reperite in rete. Ca’ Venier è l’attracco del traghetto, in piano sequenza, quando la colonna sonora pervade la scena, in primo piano, prendendo il posto di parole e dialoghi. Il film è girato in gran parte a Comacchio, tra la laguna, la foce del Po, il loggiato dei Cappuccini, corso Mazzini e il Lido degli Scacchi (Villa Bocaccini è la casa dove prende alloggio il restauratore). Altre location: la chiesa del parroco maledetto si trova a San Giovanni in Triario, comune di Minerbio (BO), la trattoria Cav. Poppi è a San Marzano in Soverzano, sempre Minerbio. La casa dalle finestre che ridono invece di essere conservata come luogo di culto del cinema italiano è stata demolita da alcuni anni. Era a Malalbergo, provincia di Bologna.
Regia. Pupi Avati. Soggetto: Pupi Avati, Antonio Avati. Sceneggiatura: Pupi Avati, Antonio Avati, Gianni Cavina, Maurizio Costanzo. Montaggio: Giuseppe Baghdighian. Musiche: Amedeo Tommasi. Fotografia: Pasquale Rachini. Produttori: Gianni Minervini, Antonio Avati. Casa di Produzione: A. M. A. Film srl. Scene e Costumi: Luciana Morosetti. Trucco: Giovanni Amadei. Consulenza Speciale: Eugene Walter. Soluzioni Pittoriche: Michelangelo Giuliani. Operatore alla Macchina: Giorgio Urbinelli. Assistente Operatore: Antonio Scaramuzza. Aiuto Regista: Cesare Bastelli. Fonico: Enrico Blasi. Microfonista: Rodolfo Montagnani. Assistente al Montaggio: Piera Gabutti. Edizioni Musicali: Eurofilmusic srl. Teatri di Posa: De Paolis – Incir. Colore: Technospes. Macchine da Presa: E. C. E. Roma. Mezzi Tecnici: El. Ma.. Effetti Speciali: Giovanni Corridori. Sincronizzazione: Cooperativa di Lavoro Fono Roma, C.V.D.. Mixage: Venanzio Biraschi. Tecnico degli Effetti Speciali: Luciano Anzellotti. Collaborazione: Lino Boccaccini. Interpreti: Lino Capolicchio, Francesca Marciano, Giulio Pizzirani, Gianni Cavina, Bob Tonelli, Vanna Busoni, Pietro Brambilla, Ferdinando Orlandi, Andrea Matteuzzi, Ines Ciaschetti, Pina Borione, Flavia Giorgi, Arrigo Lucchini, Carla Astolfi, Luciano Bianchi, Tonino Corazzari, Libero Grandi.