In vacanza per recuperare energie. I consigli sotto l’ombrellone del sociologo, professore Francesco Pira

Articolo di Pietro Salvatore Reina

Il sostantivo femminile «vacanze», attestato nell’uso della nostra lingua italiana fin dal XVI secolo, deriva dal sostantivo latino, neutro plurale, vacantia, un plurale sostantivato del verbo latino vacare: «esser vuoto, esser vacante, esser libero da, […] essere immune da vizi, […] avere tempo per (dare ascolto a) qualcuno, ecc…».

Se nella nostra lingua italiana il termine rimanda ad un’«assenza», ad uno «svuotamento» nei dialetti del Sud – scruta con acutezza l’antropologo Franco La Cecla, che nei suoi lavori ha affrontato a più riprese il tema dell’organizzazione dello spazio contemporaneo – l’aggettivo è un «rimprovero, un riferimento all’assenza di contenuto di/ in una persona».

Nel nome «vacanza», però, c’è una storia ben più lunga, millenaria che muove da Ulisse, il «figlio di Laerte, una figura che ha letteralmente afferrato l’immaginario occidentale, un personaggio il cui vero viaggio è senza fine» (cfr. P. Boitani, Il grande racconto di Ulisse).

Nell’antico mondo romano il diritto all’otium è riconosciuto solo ai nobili. I Romani trascorrono il tempo libero (appunto, otium) nelle ville in campagna o sulla costa di Baia, Pozzuoli, Miseno che diventano il ritrovo di tutta l’aristocrazia del periodo. Nei secoli che vanno dal XVI al XIX si diffonde, si afferma il Grand Tour nell’Europa centrale mediterranea come lunga «vacanza» di formazione (Bildung) per i/le giovani aristocratici/che. È nel Regno Unito del XVII secolo che compaiono i primi luoghi di villeggiatura termale. A partire dal Settecento, andare in vacanza in campagna è una moda degli aristocratici, un segno distintivo che dava lustro al nome della famiglia. Come scritto sopra è negli anni Venta / Trenta del secolo scorso che nasce il mito delle vacanze al mare.

Vacatio, per paradosso, è uno «spazio vuoto» attraversato e pregno di tempo libero, cioè un tempo dotato di libertà, a differenza di quello dedicato al lavoro che è invece un tempo scandito dall’obbligo, dalla produzione, ecc.

Il tempo delle vacanze è il vero tempo libero, quello che ha in sé la pienezza, la pienezza di una scelta che si palesa nella chiacchierata con un amico, nella scelta di un bel libro, di una passeggiata sotto le stelle con chi si ama, di una nuotata con un figlio, ecc. Le nostre vacanze, ergo, non siano pagine vuote ma una sosta per ri-partire. Alberto Moravia (pseudonimo di Alberto Pincherle, 1907-1990), che nella sua opera letteraria mette in luce, con grande realismo, la vasta e variegata umanità delle periferie senza mai giudicarla, ci dà un consiglio su come vivere questo tempo di ferie. In uno dei saggi raccolti nel volume L’uomo come fine (1964), Moravia, riconosce che «per ritrovare un’idea dell’uomo, ossia una vera fonte di energia, bisogna che gli uomini ritrovino il gusto della contemplazione. La contemplazione è la diga che fa risalire l’acqua nel bacino. Essa permette agli uomini di accumulare di nuovo l’energia di cui l’azione li ha privati».

D.: Chiediamo al professore Francesco Pira, professore associato di sociologia dell’Università di Messina, saggista e giornalista, un suggerimento su come possiamo vivere questo tempo di «vacanza» come un momento libero dalle consuete occupazioni ma teso ad «accumulare energia» per cercare di comprendere come abitare, nel miglior modo possibile, il nostro mondo.

«L’estate è quel momento, in cui fa troppo caldo per fare quelle cose, per cui faceva troppo freddo d’inverno» ha affermato Mark Twain. Ormai è cambiato anche il nostro modo di vivere l’estate e le vacanze. In spiaggia troviamo i bambini concentrati a giocare con il loro smartphone o con il loro tablet. Sono i born mobile, i nati mobili, i nativi digitali quelli che ad un anno sanno usare già il tablet. I più piccoli non arrivano in spiaggia con una borsa piena di palette secchielli e formine. Non fanno più i castelli sulla sabbia. Non corrono tra un ombrellone e l’altro pieni di sabbia o bagnatissimi. I piccoli bagnanti 5.0 sono concentrati sulle loro piattaforme del cuore. E quello che noi facevamo sembra far parte di ricordi in bianco e nero. I genitori li criticano ma forniscono gli strumenti ai più piccoli per stare in santa pace: abbronzarsi o postare un video su Instagram o TikTok. Un altro mondo…un’altra estate… I genitori li dotano dell’ultima generazione di videogiochi e li vedete sotto l’ombrellone nella peggiore delle ipotesi con il cellulare di papà o mamma. Non bisogna trascurare il fatto che i bambini entrano in possesso di un dispositivo mobile a partire dai 5/6 anni, ma hanno già utilizzato in modo quasi continuativo i dispositivi dei propri genitori. Nelle ore pomeridiane bambine e bambine si contendono il cellulare, la play station o l’xbox e discutono su quale gioco di ultima generazione mamma e papà hanno acquistato per loro. Le aziende si stanno attrezzando per rendere sempre più tecnologizzata la vita dei bambini sotto i 10 anni, visto che hanno catturato i pre-adolescenti e gli adolescenti, e gli esperti che esprimono la preoccupazione che i bambini attraverso le nuove tecnologie possano isolarsi sempre di più. Inutile negarlo, tempi sono cambiati e tutto quello che desideravamo fino a qualche anno fa sembra non esistere più. Ricordo che ci accontentavamo ad una bibita fresca in riva al mare, magari con una canzone romantica che avevamo selezionato nel juke box, mentre adesso ci bastano un paio di cuffie e un ipad per ascoltare la nostra musica preferita. Penso a quando ci spruzzavamo anche l’acqua e nuotavamo persino. A volte mangiavamo al mare, anche un panino pur di godere di qualche ora in più di sole. Sotto l’ombrellone abbiamo studiato, ci siamo innamorati, abbiamo fatto pettegolezzi o litigate. Ma non era il tempo dei selfie, dei social network, di Facebook o Instagram. Come se non bastasse, emerge la nostra voglia di esibire il nostro fisico dopo mesi di sacrifici. Uomini con la tartaruga sulla pancia e donne che mostrano bikini molto mini o addirittura monokini. Gli influencer stanno già lanciando le nuove mode sui costumi e le nuove pose, con i nuovi costumi del momento, devono essere rigorosamente condivise sui social. Influencer e Vip sono già pronti e Fred Bongusto con la sua rotonda sul mare è davvero un reperto archeologico. Il sociologo Bauman propone una riflessione sulla vita moderna, sempre più spesso divisa tra online e offline, evidenziando le implicazioni più critiche della rivoluzione digitale. «Non sempre – sostiene Bauman – la migrazione della nostra vita online si traduce in un effettivo potenziamento». L’era digitale ha portato la creazione di reti ma non di comunità. Per Bauman la comunità è qualcosa che ci osserva e ci lascia poco spazio di manovra ma, al contempo, rafforza l’individuo, la sua autostima e la fiducia in sé stessi. Dall’altra parte la rete ci mette in contatto più velocemente ma ci rende più deboli, aumentando il senso di solitudine portando insicurezza e, a lungo andare, infelicità. E a rendere così attraenti le reti è la loro perpetua transitorietà, la loro natura temporanea perché eternamente provvisoria, il loro astenersi dall’imporre impegni a lungo termine o una lealtà assoluta e una rigorosa disciplina. «Stiamo nel mondo online per sentirci meno soli» – sostiene Bauman e forse, dico forse, per rigenerarci bisognerebbe tornare a vivere la vita reale. Abbiamo bisogno di leggere, di approfondire, di riflettere, di recuperare gli affetti e i valori quelli veri. Magari, di tornare ad abbracciare e a guardare negli occhi chi ci sta vicino, perché il potere dell’amore ci dona l’energia di cui abbiamo tanto bisogno. Ci serve condividere e vivere nella reciprocità per comprendere quanto importante sia l’altro, perché da soli siamo niente e questo dovremmo ricordarcelo».

P.S.: L’immagine interna dell’articolo riproduce la famosa xilografia La grande onda dipinta negli anni 1830-1831 da Hokusai Katsushika è conservata nella Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti d’America.

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