Emilio Salgari e la letteratura italiana sono – e sono stati – erroneamente concepiti come due corpi estranei, a volte anche scissi, per la reticenza nel considerare la produzione narrativa dello scrittore veronese antiquata, pedestre o ormai passata. In realtà oggi, dove lo spazio e il tempo sono facilmente colmabili grazie all’elongazione della nostra mano (meglio conosciuta come smartphone), dovrebbe essere di gran lunga maggiore la curiosità nel ritrovare il sentiero dei viaggi concepiti da una mente, capace di immaginare un altrove fantasioso, muovendo solamente i polpastrelli sulle mappe degli atlanti o delle prime guide dell’estremità del mondo allora conosciuto.
La molteplice produzione narrativa dell’autore veronese si suole suddividere in cicli, spicchi di storie che avevano un proprio spazio storico e geografico, di sovente antropizzato, quantunque fosse sconosciuto ai più nel momento in cui scriveva l’autore. Perciò leggere Salgari significa immergersi in nuove culture, in nuovi mondi, e modi di pensiero differenti per lo più studiati, vissuti, e compresi non da un punto di vista eurocentrico, ma multiforme e in grado di assumere la tipica conformità di pensiero dell’ubi consistam, cioè quel punto d’appoggio da dove sia possibile valutare ogniqualvolta la vita degli indiani del Punjab, quella dei pellirossa, degli amerindi, dei corsari, dei cristiani giaurri o degli arabi; tutto ciò all’interno di stralci di vita consimile a quella europea, ma profondamente diversa per luogo di nascita e di cultura patria e mutila a volte perché inesprimibile, priva di voce alcuna poiché soppressa. In fondo è come se alla mescita dell’inchiostro vivace della penna di Salgari parlino per la prima volta quelle figure consultate e raffiguranti pelli, vesti, casacche, armature, caffettani, vestaglie, che sarebbero rimaste solo al rango di immagini nella loro interezza artistica, insomma disegni buoni per essere rappresentati e nulla più.
E nel campionario dei personaggi non dobbiamo annoverare solamente gli uomini, ma anche le donne che rappresentano una novità nel panorama letterario di fine Ottocento e inizio Novecento. Il primo grande romanzo italiano che assicurò un notevole spazio d’azione ai personaggi femminili fu I Promessi Sposi del Manzoni che spingeva incessantemente il suo ritmo narrativo attraverso la presenza di un numero cospicuo di donne (Agnese, Lucia, Gertrude, Donna Prassede e via discorrendo). Personaggi intensi che presentavano una profondità psicologica e umana, studiata e costruita per dare al romanzo una vivacità narrativa inconsueta, una forza centripeta che avvolge il vero storico. Evitando di riflettere sulla corrente verista, che cominciava a dar voce anche alla difficile vita delle donne, sparse dal tacco alla punta dello stivale, anche Salgari nei suoi romanzi d’avventura crea personaggi femminili degni di nota, anzi è il primo che ne fa protagoniste assolute, pienamente interpreti di storie che si aprono e concludono nel loro segno.
Onde ripetere uno sterile e noioso elenco delle eroine salgariane, tra le più vivaci (e meno note) sfavilla la figura della duchessa Eleonora d’Eboli, la quale è protagonista indiscussa del ciclo “Capitan Tempesta” profuso in due romanzi: Capitan Tempesta e Il Leone di Damasco. Senza nulla togliere a Honorata Wan Guld e la Perla di Labuan, Eleonora d’Eboli è una perfetta mescolanza di dolcezza e mistero, la cui figura rimane iconica nei due libri del ciclo per la forza di affrontare le difficoltà con coraggio, astuzia e decisione, avvalendosi di una rete solida di amicizie leali (garantite da una sudditanza classicamente inquadrata nel rapporto padrona-schiavi) o di sottoposti, ma ridisegnata nel segno del sentimento autentico, privo di vincoli alcuni. La novità che possiamo cogliere è nella costruzione del personaggio per la quale non è contemplata una reductio ad puellam di matrice ottocentesca, ma un’intraprendenza femminista che nasce da motivazioni amorose all’interno della dicotomia cristiani-mussulmani: siamo infatti nella seconda metà del XVI secolo e il conflitto tra l’Occidente e l’Oriente diventa cruente con la distruzione delle isole che erano di proprietà della Serenissima (quali ad esempio Cipro e Creta).
Di mistero abbiam parlato per la volontà della duchessa d’Eboli, in Capitan Tempesta, di intraprendere un’azione ardimentosa: salvare il suo amato, il visconte Gastone Le Hussiére, caduto prigioniero del nemico islamico. Gettando il proprio cuore di eroina oltre l’ostacolo Eleonora utilizza sensatamente il peso della sua rabbia e si reinventa Capitan Tempesta (da cui Salgari ha tratto il titolo), prima lama campana al servizio della Serenissima, quantunque dalla prima descrizione che ne fa Salgari piovano copiosamente indizi di mascolinità promiscua: “Capitan Tempesta […] era un giovane bellissimo, anzi troppo bello per essere un guerriero, un po’ alto, snello, di forme eleganti, con due occhi nerissimi che parevano due carbonchi, una bocca da fanciulla con dei dentini superbi, la pelle leggermente bruna che tradiva il tipo meridionale e la capigliatura lunga e corvina. Nell’insieme sembrava più una graziosissima fanciulla che un capitano di ventura”.
Dunque in una storia (siamo negli anni antecedenti alla battaglia di Lepanto) dove si avvicendano nel proscenio bellico soldati sprezzanti in difesa di una fede religiosa o di un’altra, l’autore mette da parte la rappresentazione canonica della femminilità fatta di arrendevolezza e remissività, mitezza e timore; anzi notiamo tutt’al più un linguaggio narrativo che non inquadra l’eroina nel perimetro dell’eterno femminino, ma se ne discosta con un’indipendenza di pensiero rivoluzionaria e accompagna il suo agire strategico con una spavalderia e una sicurezza di sé che la porteranno a scontrarsi perfino con la prima lama dell’Islam: il Leone di Damasco, meglio conosciuto come Muley El Kadel.
E addirittura nei due romanzi che compongono il ciclo assisteremo a uno scontro tra due polarità femminili: raramente si era vista una situazione del genere. Le pagine che contrappongono Eleonora, la duchessa di Eboli, a Haradja, la castellana di Hussif, sono moderne nella loro semplicità e fresche per l’innovazione narrativa. A proposito della castellana, costei, nipote di Alì Bascià, domina un castello, erto su un promontorio cipriota, depredato, dopo un feroce assedio alla Serenissima. Donna terribile, sitibonda di stragi e torture, è la nemesi di Capitan Tempesta; lo scontro tra le due donne svela una medesima passione sottocutanea per Muley El Kadel; in realtà leggiamo che la prima lama della cristianità approda al castello di Hussif per salvare il proprio amato, il visconte francese menzionato qualche capoverso addietro. Nell’epicità delle scene la contrapposizione è articolata in maniera esauriente: infatti essa è psicosomatica, caratteriale, psicologica, religiosa, sociale. Osserviamo i comportamenti opposti che configurano il bene e il polo dei valori positivi in Eleonora (il coraggio, l’amore, l’amicizia, la solidarietà) e il male e il polo di valori negativi in Haradja (la cattiveria, la crudeltà insensata, la sudditanza psicologica verso i sottoposti, spesso usati per dileggio in scontri mortiferi). Per l’eterna legge degli opposti che si attraggono, Salgari riuscirà a combinare genialmente un’attrazione fatale tra le due donne, anche perché la castellana di Hussif si ritrova al suo cospetto Hamid Eleonora (un’altra straordinaria trasformazione del medesimo personaggio), un arabo figlio del famigerato Pascià di Medina e latore da parte di Muley El Kadel di una richiesta: liberare il visconte Le Hussiére. La storia avrà un suo meraviglioso seguito con Il Leone di Damasco nel quale, pur mantenendo la polarità tra le due donne, il conflitto bellico con l’Islam occuperà una spazio preponderante.
Pertanto nell’universo letterario di Salgari la donna “protagonista della scena” o “sublime eroina” non è concepita solamente attraverso il campo della propria interiorità e delle proprie pulsioni, non è intrappolata in una dicotomia con l’uomo, tra machismo e remissività; è essa stessa forza centrifuga e centripeta; conosce universalmente i valori; ha piena cognizione dei diritti e dei doveri. Si pensi a tal proposito allo scontro con il Leone di Damasco, foriero anzitempo di sospiri amorosi: “La duchessa, invece di piombare sul ferito e di finirlo come ne avrebbe avuto il diritto, aveva arrestato il cavallo, guardando con un misto di orgoglio e di compassione il giovane Leone di Damasco che faceva sforzi supremi per mantenersi in sella. – Vi dichiarate vinto? – chiese, facendo avanzare il cavallo. Muley-el-Kadel fece atto di alzare la scimitarra per riprendere la lotta, quando le forze improvvisamente gli vennero meno. Vacillò, s’aggrappò alla criniera del cavallo, poi cadde come era caduto il polacco, con un cupo fragore di ferraglia. – Uccidetelo! urlarono i guerrieri di Famagosta – Nessuna compassione per quel cane, Capitan Tempesta! La duchessa scese da cavallo, tenendo in mano la spada, la cui punta era insanguinata e s’avvicinò al turco che si era alzato sulle ginocchia. – Vi ho vinto, – disse. – Uccidetemi rispose Muley-el-Kadel. – È vostro diritto. – Capitan Tempesta non uccide chi non può difendersi rispose la duchessa. – Siete un valoroso e vi dono la vita”. C’è un’aura di superiorità nella donna che sopisce il desidero di rivedere l’amato, una determinazione per nulla offuscata dalle regole, dai principi cavallereschi, perché in fondo è una missione d’amore, del tutto estranea alla guerra, e tormentata da un baluginio intermittente nel quale si stagliano le immagini di una Venezia origo amoris amata, sospirata e strappata con violenza dalla realtà.
Nel barlume dell’avventura che attenua i tramonti di fuoco d’Oriente, Eleonora troverà il suo amato, ma, per un’ignobile baruffa del destino, lo perde per sempre come le era stato predetto dal fido schiavo El Kadur. Ella dovrà rialzarsi e combattere. Non è forse questa l’eterna morale che andiamo cercando? Donne o uomini, non sussiste alcuna differenza. Siamo tutti inermi di fronte il fato.