La scelta di avviare l’analisi del racconto Berenice di Antonino Schiera a partire dall’ascolto dell’incipit non è motivata dalla collocazione del brano nell’impianto narrativo, ma dalla sua natura analettica, che colloca gli eventi in un tempo antecedente a quello del racconto, espediente che apre subito la prospettiva verso un tempo ciclico, non una mera successione di istanti conseguenti l’uno all’altro, un tempo già di per sé anticipatore dei fatti che verranno, che, per ovvi motivi, esporrò solo parzialmente, giusto per fornire al lettore una chiave utile alla fruizione corretta dall’inizio alla fine. E sarà una chiave che – è bene precisarlo subito – coincide con un messaggio di speranza, una luce che sa di palingenesi, malgrado l’orrore che fa da sfondo alle vicende.
Sì, perché di orrore è opportuno parlare, senza eufemismi, ogniqualvolta l’uomo si pone nella dimensione hobbesiana (i cui antecedenti risalgono al teatro plautino) dell’homo homini lupus, condizione atavica di sopraffazione, che rende in modo icastico il divario, da sempre indagato in letteratura, tra fiusis e nomos, tra legge naturale (che, nel nostro caso, sa, appunto, di sopraffazione e di violenza) e legge imposta (che, a volte, regola con fini positivi la vita della collettività, quando tende all’esaltazione del bene comune, ma che, nel nostro caso, coincide con la fiusis e genera l’orrore). Altro che homo homini deus, come asseriva Stazio (e dopo di lui altri, come Spinoza, giusto per citarne uno), anche se, a ben guardare, il poeta latino precisava homo homini deus est, si suum officium sciat, quindi “l’uomo è dio per l’altro uomo, se conosce il proprio dovere”.
Già, ma in che cosa consisteva il “dovere” per Albert (il primo personaggio in ordine di apparizione nel racconto)? Nell’obbedire ciecamente a una legge imposta dall’alto, che di fatto negava agli Ebrei la dimensione di uomini? O nel farsi “dio” e assumere le vesti di demiurgo, di artefice di una realtà solidale, in cui non esistono differenze tra gli uomini che non siano reciprocamente arricchenti?
Nel racconto, Albert appartiene a questa seconda categoria: un personaggio che, pur essendo organico al regime, rifiuta l’indicibile, mettendo a repentaglio la vita propria e quella dei suoi cari e innescando così la palingenesi, la rinascita, che, con una trovata ingegnosa, l’autore del racconto svela solo nel finale.
Ed è un finale di cui s’intende già dall’incipit la natura: è un lieto fine quello a cui Antonino Schiera conduce il lettore, passando attraverso l’Olocausto, che, sia pure a distanza di anni, impatta con la storia personale della protagonista. Un lieto fine di cui io ringrazio l’autore, perché credo che si senta un gran bisogno di messaggi che aprono alla speranza, in tempi, come quelli attuali, così avari di emozioni positive e di autenticità, tempi che sembrano condannati all’analfabetismo emotivo e all’anedonia, tempi in cui il messaggio letterario richiama alla mente le potenzialità della presenza dell’uomo sulla terra e non solo le sue efferatezze. Naturalmente mi riferisco a tutte le atrocità che, ieri come oggi, hanno connotato e connotano l’essere umano, quale che sia la sua etnia o il suo livello culturale e sociale, centrifugandolo in una costante di violenza che accomuna vittime e carnefici in un’unica entità abnorme, che da vittima si trasforma, appunto, in carnefice per la smania di quel potere che, con acribia, Francesco Guccini definisce “immondizia della storia degli umani”!
Pregherei, a questo punto, Antonino di chiarire ai presenti la fonte di ispirazione dell’incipit del racconto; preciso che la mia curiosità è suscitata soprattutto dalla densità e dall’accuratezza, direi corporea, dei dettagli della prima scena, una precisione che sembra suggerire una realtà non solo ben conosciuta, ma vissuta.
L’ascolto del brano estrapolato dal secondo capitolo ci introduce, insieme a riti e particolari minuziosi, la figura della protagonista, Berenice, completata dalla sua propaggine, il figlio Amos, e coadiuvata da quello che sembra essere il coprotagonista, David, ma che, nel prosieguo della storia, diventerà, suo malgrado, l’antagonista.
Procediamo con ordine. Berenice: il nome già etimologicamente comunica a me, lettrice, la sensazione di un’entità a colori in una globalità di vicende e di personaggi grigio-neri; è un nome strutturato sul macedone Berenìke, derivato, a sua volta, dal greco Ferenìke, composto dal verbo férein (portare) e dal sostantivo nìke (vittoria). “Colei che porta la vittoria”, dunque. E davvero questa donna uscita dalla penna di Antonino è portatrice di una vittoria non certo convenzionale, visto che la sua nascita è già una conquista per i genitori, convinti di essere condannati alla sterilità, ma soprattutto perché si tratta di una vittoria conseguente a un percorso di riconquista di un’identità che trasformerà la vittima in un essere resiliente capace di riscatto.
E d’altronde il nostro personaggio condivide il nome (nomen omen) con regine e principesse d’Egitto appartenenti alla famiglia dei Tolomei; senza contare la principessa ebrea amata, sembra, dall’imperatore romano Tito, relazione bruscamente troncata, che fa da archetipo a tante storie di conflitto tra passione e ragion di stato e che ha ispirato altrettanti capolavori della letteratura mondiale di ogni tempo, prodotti da grandi intellettuali, da Callimaco a Catullo, da Racine a Edgar Allan Poe, solo per citarne alcuni.
La nostra Berenice è gioia, solarità, malgrado le piaghe che le graffiano l’anima,
imprimendole a fuoco il male indicibile. È bella, di una bellezza assoluta e totalizzante, che uniforma l’esteriorità con l’interiorità e che fa del personaggio una persona volitiva, empatica, capace di volare alto sull’acqua stagnante dell’umanità dolente presente nel racconto, un’umanità che sceglie esiti divergenti: pochi sono capaci di dinamismo e di riscatto, altri, i più, sono cristallizzati nel dolore.
Come David, il padre di Amos, l’uomo inizialmente amato da Berenice, David che, ad onta del suo nome, non riesce a uccidere il Golia che è dentro di lui e che gli divora l’anima.
David, come risulta già dal terzo capitolo, non propone esiti cicatriziali, ma ostenta ferite aperte e pulsanti, insieme a un’inestinguibile sete di giustizia, che in lui assume le connotazioni della vendetta. Incontrandolo nel corso della mia lettura, in effetti, ho richiamato d’istinto alla mente, più che i tanti, benemeriti, Wiesenthal, il fenomeno NAKAM (in ebraico “vendetta”), quel progetto di uno sparuto gruppo di Ebrei sopravvissuti ai lager nazisti, che, nel ’45, pianificò lo sterminio del maggior numero possibile di Tedeschi (a partire da quelli di Norimberga) mediante avvelenamento dell’acqua potabile di grandi città, in un delirio di vendetta da legge del taglione che caratterizza, appunto, anche il nostro David, che si fa fagocitare da questo abisso con tutto ciò che ha di più caro.
Mi piace, a questo punto, concludere con una notazione positiva, facilmente riscontrabile in tutta la narrazione: la scelta felice da parte dell’autore di mescidare più fonti di percezioni sensoriali, in una sinestesia continua e profonda, generata dalla mescolanza, a fini comunicativi, di linguaggi verbali e di espressività originata da più codici, musica, odori, sapori, sensazioni, sempre declinati sulla scorta di una nomenclatura rigorosa e di una toponomastica che rivela, a mio parere, luoghi dell’anima.