Intervista a Francesco Ferrara sull’Abate Don Mercurio

Articolo di Carmelo Cutuli

L’Abate Ferrara fu tra i pionieri del “mutuo insegnamento” nelle scuole siciliane, un metodo che oggi potremmo paragonare al peer-to-peer learning o all’apprendimento collaborativo. Come vede questa sua intuizione pedagogica alla luce delle moderne teorie dell’educazione?
Il metodo del “mutuo insegnamento” va collocato storicamente nei primi dell’800 e dunque nelle difficoltà sia economiche che organizzative che lo contraddistinguevano e lo scopo è da ritenersi assai pregevole: quello di favorire l’alfabetizzazione e la crescita culturale dei ragazzi più poveri in un contesto in cui si assisteva al sovraffollamento delle classi e alla mancanza di insegnanti formati. Sebbene io non sia un esperto di pedagogia, tuttavia, ritengo che questo metodo, oggi assimilabile a quello della peer education, possa mantenere una sua validità. L’insegnamento reciproco permetteva agli studenti di accrescere e perfezionare le proprie conoscenze, il metodo di studio e la capacità di problem solving. Tutto questo ha un valore enorme per l’autostima degli studenti ma anche per la formazione di un senso di responsabilità e protagonismo delle giovani generazioni. Questo metodo potrebbe sicuramente oggi rispondere alle nuove esigenze di alfabetizzazione digitale e dunque ai più giovani che possono trasmettere nozioni e concetti nuovi alle persone più anziane, ma anche al fenomeno dell’immigrazione: potrebbe essere un esperimento interessante quello di coinvolgere gli studenti nel favorire l’apprendimento di studenti provenienti da altri contesti culturali. Mi piace immaginare che questo favorisca l’integrazione e possa esserci un reciproco accrescimento di culture diverse e dunque un arricchimento. Nella mia esperienza lavorativa osservo che spesso nelle pubbliche amministrazioni la formazione e l’aggiornamento professionale passa oltre che dalle attività di corsi, master etc, anche da una attività di “peer education” tra colleghi ed i risultati sono fruttuosi sia sul piano dell’apprendimento che su quello del cd. team building.

Come direttore della Real Stamperia, il suo antenato si trovò a gestire quello che oggi definiremmo un centro di produzione e diffusione culturale. Quali paralleli vede tra quel ruolo e l’attuale sfida della divulgazione culturale nell’era digitale?
Il periodo in cui Mercurio Ferrara dirige la Reale Stamperia è quello in cui era stata da poco varata la Costituzione anglo-siciliana del 1812 nella quale era stata introdotta la libertà di stampa. Il contesto nella quale la Stamperia reale si trovava ad operare era di tipo concorrenziale e vedeva il sorgere di tipografie private, naturale conseguenza del riconoscimento della libertà di stampa. Questa istituzione pubblica, oltre a svolgere la funzione di pubblicare gli atti regi, si preoccupò di pubblicare a prezzi economici i libri per l’istruzione dei giovani; tra tutti ricordo la pubblicazione di un Abecedario lancastriano venduto al prezzo di un tarì per “agevolazione dei Padri di famiglia”. E’ proprio in questa attenzione dell’epoca verso i giovani e le famiglie meno abbienti che vedo nitidamente il parallelo con la sfida odierna della divulgazione culturale nell’era digitale. Oggi il digitale ci consente di diffondere contenuti culturali senza costi e senza confini territoriali. Oggi abbiamo una grande opportunità: usare consapevolmente lo strumento digitale per trasmettere idee, pensieri, nozioni e renderli fruibili anche a chi non avrebbe, per ragioni economiche, la possibilità di accedere al mondo della cultura; al contempo, questa, però, è una responsabilità: non è sufficiente divulgare ma è necessario trasmettere contenuti di qualità. La facilità con cui si può esercitare “il diritto di stampa” e dunque di istruzione e formazione tramite il digitale non deve farci cedere alla tentazione di fornire contenuti di minore qualità.

L’appartenenza dell’Abate alla Carboneria (tessera n. 753) testimonia il suo impegno per il cambiamento sociale e politico. Come si manifesta oggi quell’eredità di pensiero progressista nella sua famiglia?
Gli studi che sto portando avanti su questo mio antenato mi hanno portato a scoprire che è stato un membro di una società segreta, carbonara, “I buoni cugini di Sicilia”, che nel periodo risorgimentale manteneva contatti con l’Inghilterra; invero nei racconti familiari non è mai stata tramandata la notizia che fosse un carbonaro, sebbene nella documentazione dell’archivio storico di famiglia sembra comparire qualche traccia di questa sua appartenenza, ad esempio nella descrizione dello stemma che sceglie; altri documenti che testimoniano l’impegno diretto durante i moti rivoluzionari che si svolsero a Piana degli Albanesi, di un suo nipote, mio antenato diretto. Questo ha fatto parte della narrazione familiare e credo costituisca una delle chiavi di lettura di un pensiero politico della famiglia caratterizzato dall’avversione verso le forme politiche di oppressione della libertà e di promozione dei valori di democrazia e di impegno, sia politico che culturale, di promozione e diffusione dei valori di libertà e rispetto della persona.

ll “Viaggio a Pestum” rappresenta un esempio di letteratura di viaggio con finalità documentativa e culturale. Come valuta questo approccio “giornalistico” ante litteram di Mercurio Ferrara?
Viaggio a Pestum è un diario di un viaggiatore dell’Ottocento e come tale va considerato. Quello del diario di viaggio, secondo me, è un genere di descrizione che connota necessariamente chi scopre luoghi nuovi e vuole trasmettere ad altri ciò che ha visto e vissuto, una narrazione di un’esperienza. Oggi, siamo abituati a pubblicare sui social network immagini di luoghi, persone e piatti magari con qualche commento per rendere noto ad amici e conoscenti quello che stiamo vivendo. Come è stato osservato da commentatori contemporanei lo scritto di Mercurio Ferrara non si pone sullo stesso livello letterario di viaggiatori dell’epoca come Goethe, ma ha sicuramente una particolarità, che ritengo essere il carattere distintivo del suo autore: divulgare cultura tra il grande pubblico. Il libro, la cui copia originale è oggi custodita, tra gli altri, nella biblioteca di Heidelberg e che è fruibile grazie ad una ristampa di qualche decennio fà ha un caratteristica: racconta il percorso che l’Abate Ferrara fa da Napoli fino a Pestum e descrive i luoghi dove si ferma e le loro caratteristiche ambientali, i monumenti e le opere che vede, le persone che incontra e le impressioni che ricava dal modo di operare delle popolazioni per poi giungere ad una meticolosa descrizione architettonica di Pestum e della storia di questo luogo. Con un linguaggio fruibile ed uno stile accattivante, il diario del viaggio pubblicato a Napoli nel 1837 offriva ai suoi lettori del tempo la possibilità di vedere tramite gli occhi della compagnia viaggiatrice luoghi per il tempo geograficamente lontani ed offre a noi contemporanei l’opportunità di condurre un viaggio in un tempo ormai passato ma comunque suggestivo.

Come segretario generale incaricato di creare una biblioteca e un museo, l’Abate dimostrò una visione moderna della fruizione culturale pubblica. Quale lezione possiamo trarre oggi da questa sua iniziativa?
La sua attività svolta sia per il Museo della Regia Università di Napoli che per quella di Palermo, ancora oggi, viene riconosciuta dagli studiosi come un contributo importante di cui gli stessi si sono avvalsi. Questo suo impegno dimostra una visione della cultura come mezzo per la crescita dei popoli. L’essenza della cultura è la fruizione da parte di tutti, conoscenza, cultura e bellezza non possono essere considerati un patrimonio esclusivo ed elitario di un gruppo più o meno ristretto di persone. Un patrimonio culturale che non viene reso accessibile si inaridisce e viene meno al suo compito educativo e formativo verso tutti. La fruizione culturale pubblica è un elemento essenziale delle istituzioni pubbliche, è connaturata nella missione pubblica.

L’Abate proveniva da una famiglia di rito greco-albanese e operò in un contesto multiculturale. Come questa sua esperienza di “ponte tra culture” può essere rilevante nel dibattito contemporaneo sull’integrazione culturale?
Il rito greco – albanese della Chiesa Cattolica è uno degli elementi distintivi della mia famiglia, che continuiamo a portare avanti non solo per tradizione storico- culturale ma per convinzione del suo valore attuale: vivere nella razionalità dell’Occidente con lo sguardo rivolto alla spiritualità del vicino Oriente. Abitare in un contesto occidentale sapendo di avere origini, in parte, da altri Paesi europei ci ha sempre portato a sentirci una sintesi vivente della possibilità di integrare riti e culture solo in apparenza diversi ma uniche nei valori fondamentali. Sono stato educato e formato anche con i racconti familiari sulla nostra storia familiare e l’insegnamento che ne ho tratto è quello dell’arricchimento reciproco tra le culture. Credo che l’esperienza di chi si tramanda un rito antico e diverso da quello maggioritario sia un qualcosa che plasma il proprio carattere nel senso dell’apertura verso diversi modi di vedere e di una possibile convivenza. In qualche modo ci sentiamo un piccolo ma significativo pezzo di un “ponte” ideale tra due sfere dell’Europa. quella occidentale e quella orientale. Ritengo, anzi, che occorrerebbe prestare maggiore attenzione a queste realtà culturali, come quella degli Arbereshe in Italia; cinquecento anni di presenza in Italia lungo i quali si è mantenuta la tradizione e ci si è aperti all’innovazione, sostenendo – come dimostra il contributo scientifico del mio antenato – i processi culturali del nostro Paese è la prova che la contaminazione culturale è lievito di crescita per ogni comunità.

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