“Io qui ci vivo”, il nuovo libro di Elisa Audino

Articolo di Gordiano Lupi

Elisa Audino un po’ la sento vicina perché figlia di un operaio cresciuto in un paese di montagna e sceso a valle per lavorare al boom economico italiano, nel suo caso in un cementificio in provincia di Cuneo. La mia famiglia ha fatto un po’ la stessa cosa, confluendo da Monte Amiata e Isola d’Elba per lavorare, prima ancora del boom, in una Piombino siderurgica di inizio secolo. Destino comune e in parte anche sentire comune, come quando scrive Ma abbandono sempre / la nave / quando sta per vincere. / Appartengo a chi / è abituato a perdere. Parla anche del padre nelle sue poesie, come racconta vita e di emozioni, provando a stare in bilico tra il locale e il globale, incazzandosi per le cose che non vanno, soffrendo per i dolori quotidiani. Parla di un’amica morta in un attentato a Dacca, anche se crede di non aver nessun diritto a farlo, purtroppo il dolore per un’assenza non voluta ritorna ogni mattina, accompagna tristemente il risveglio. Io qui ci vivo è poesia delle distanze e delle assenze, in un mondo dove puoi raggiungere tutti in un lampo grazie a una connessione Internet, anche se resta il dubbio se poi raggiungi davvero qualcuno. Nel libro trovi il femminismo, vissuto sul campo e raccontato scrivendo sui giornali; incontri la sofferenza per un figlio operato di tumore al cervello, la palpitante angoscia di quel che sarebbe potuto accadere, la ripresa morale dopo un esito fausto, simboleggiata dalla voglia di tornare a scrivere. Elisa Audino scrive poesia discorsiva, quasi racconto ma non alla Pavese, più alla Bukowski, stile Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Lo stile è scorrevole, semplice, diretto, anche se molti significati metaforici restano nascosti, quasi irretiti, da un verso che – si voglia o meno – è sempre musicale. Bella edizione spartana, tascabile di Gatto Merlino, che per fortuna pubblica poesia – come si dovrebbe fare! – a prezzi economici.


Leggiamo qualche poesia tratta dalla raccolta.

Quel che chiedi a un figlio

Siamo le tue larve,
pronti a piegare negli armadi
ogni tuo ricordo.

Qualcosa di cui parlare

Volevo arrivarci in treno
viaggiando lentamente.
Da me ci si impiega una notte,
all’incirca,
e un cambio.
una volta a Pompei,
ti avrei scritto per giorni
e tu mi avresti risposto.
Ti avrei chiesto dove cenare
e mi avresti risposto ancora.
Sarei andata dai tuoi amici
e mi avrebbero raccontato di te.
E fra qualche anno tu saresti tornato,
per il solito breve viaggio,
lei avrebbe avuto quel cappello a tesa larga
come nella foto,
tu una camicia leggera.

E avremmo avuto di nuovo qualcosa.



Distanze

E quindi ce ne andremo
Senza poterci salutare.



Lorenzo

Non ho ricordo di te
Se non il nome
Un unico giorno
Noi saliamo,
Tu rimani.
poi sei la stanza di fronte.

Lorenzo.

Passo a salutare
La tua sentenza di morte
Ti accarezzo il piccolo piede,
Il resto non si può quasi toccare.
Ma strilli.

Hai ragione.

La vita non ne ha
Tu, sì.

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