A Mergellina, nella Chiesa di Santa Maria del Parto, a Napoli, c’è un maestoso sarcofago, in cui riposano i resti di Jacopo Sannazaro: eccellente umanista napoletano.
Di madre salernitana e di padre lombardo (discendente da una famiglia citata da Dante nel Convivio), nato a Napoli, di stirpe nobile, ma cresciuto a Salerno, Jacopo Sannazaro – legato fortemente alla raffinata corte aragonese dal 1481 – è stato un importantissimo umanista napoletano, di cui l’ispirazione proveniva dai paesaggi rurali della Campania cinquecentesca. Da questa ispirazione nasce una delle opere più belle in assoluto, il capolavoro di Sannazaro, un fortunatissimo prosimetro scritto in toscano letterario, “Arcadia” (1504. Anno di pubblicazione), in cui si parla di campagna, di pastori, di animali, di mitologia, di paesaggi mozzafiato, ma anche di malinconia e di presagi di morte. L’Arcadia, regione della Grecia corrispondente al Peloponneso centrale, è il luogo dove, nell’opera, Sannazaro, nelle vesti di un pastore di nome Azio Sincero (suo pseudonimo), è il protagonista (come accade anche nelle Bucoliche di Virgilio, in cui dietro ai pastori si nascondono veri e propri letterati del tempo e Virgilio stesso). Va detto che Sannazaro sceglie proprio questa regione greca – il cui nome viene da Arcade, re che introdusse la coltivazione dei campi e insegnò ai sudditi a lavorare il grano e a filare – perché era simbolo di civiltà che si collegava alla Magna Grecia e quindi alla realtà napoletana. Nella storia, Sincero lascia Napoli per un amore non ricambiato – per Carmosina dei Bonifacio – e si dirige verso l’Arcadia dove risiedono pastori-poeti che vivono felici suonando zampogne e cantando inni. Qui il protagonista può dilettarsi in canti e composizioni poetiche ma, ad un certo punto, ha un sogno sul destino tragico della sua donna amata, perciò decide di ripartire verso la sua città natale. Così, penetrando nelle profondità del mondo, attraverso un viaggio guidato da una bellissima ninfa, si imbatte, tra altre cose, nelle rovine di maestose città perdute, come quella di Pompei. Attraversando quelle profondità, infine, Sincero si trova alle foci del fiume Sebeto, quindi risale nella sua Napoli, descrivendo meravigliosamente il Lago di Lucrino; Miseno, l’isola di Ischia; l’isola di Capri; quella di Procida; il Vesuvio: “Vegna Vesevo, e i suoi dolor racontici. | Vedrem se le sue viti si lambruscano | e se son li suoi frutti amari e pontici. | Vedrem poi che di nubi ognor si offuscano | le spalle sue, con l’uno e l’altro vertice; | forse pur novi incendii in lui coruscano”.
Quando, verso i vent’anni Sannazaro tornò a Napoli, si dedicò completamente alla poetica e alla retorica e conobbe, tra tutti, Giovanni Pontano (massimo esponente dell’umanesimo napoletano), il quale rappresentava la strada verso gli studi umanistici nel Regno di Napoli. Sannazaro divenne membro dell’Accademia Pontaniana, ancora oggi esistente.
Anni dopo ripartì al seguito del re di Napoli Federico d’Aragona ma, quando quest’ultimo morì (1504), Jacopo Sannazaro ritornò definitivamente a Napoli e visse nella sua tenuta a Mergellina (proprio dove attualmente c’è la Chiesa di Santa Maria del Parto), che sovrastava quello che oggi e il Largo Sermoneta, dove si interessò di politica, di filosofia, di letteratura classica.
Scriverà anche storie in volgare napoletano, “Farse”; “Gliommeri”; “Fabulae Piscatoriae”, di carattere comico, qui i protagonisti non sono essenzialmente pastori – come quelli idilliaci della regione dell’Arcadia – ma sono pescatori che si muovono sullo sfondo paesaggistico di Mergellina. Tali composizioni servivano a dilettare la Corte napoletana.
Iniziatore del dramma pastorale, l’umanista Jacopo Sannazaro morirà a Napoli nel 1530 a casa di una sua cara amica, la nobildonna Cassandra Marchese. A Napoli gli sono stati dedicati un teatro, una piazza e un liceo.
“Napoli, sì come ciascuno di voi molte volte può avere udito, è ne la più fruttifera e dilettevole parte di Italia, al lito del mare posta, famosa e nobilissima città, e di arme e di lettere felice forse quanto alcuna altra che al mondo ne sia. La quale da popoli di Calcidia venuti sovra le vetuste ceneri de la Sirena Partenope edificata, prese et ancora ritiene il venerando nome de la sepolta giovene”, diceva Sannazaro nell’Arcadia, definendo la città di Napoli, a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento, come simbolo dell’Umanesimo. Città che ospitava l’Accademia Pontaniana, in cui si ritrovavano intellettuali partenopei per discutere di letteratura classica, di arte, di astrologia, di retorica, di botanica, di storia, di filosofia, di teologia, di geografia (siamo nell’era delle grandi scoperte geografiche) e di filologia.
L’amore per la riscoperta dei classici, ad opera di Petrarca, investì anche Napoli tra il XV e il XVI secolo e Jacopo Sannazaro è uno dei maggiori esponenti degli studia humanitatis. Esponenti che cercarono di rinnovare la cultura napoletana attraverso il buon senso, la ragione e la prudenza.