Dal 2019, ovvero da quando l’ambasciata dell’Ecuador ha revocato (su pressioni esterne) la sua protezione, il giornalista Julian Assange è rinchiuso nella prigione londinese di Belmarsh. Dispute giudiziarie e pressioni da parte degli USA, che vanno avanti ormai da oltre un decennio.
Qualche mese fa, il governo britannico ha approvato l’estradizione di Assange negli Stati Uniti. Ma, anche a causa delle enormi pressioni mediatiche e delle richieste degli avvocati della difesa, ha posto alcune condizioni. Delle nove richieste e cautele presentate dalla difesa di Assange, a febbraio 2024, l’Alta Corte di Londra ne aveva rifiutato sei. Tre invece sono state accolte. Tra le istanze formulate dagli avvocati difensori del giornalista accolte, potersi avvalere del Primo Emendamento Costituzione degli Stati Uniti (che protegge la libertà di stampa), non essere discriminato nel processo a suo carico e non rischiare la condanna a morte.
Se gli USA convinceranno i giudici londinesi, la richiesta di estradizione formulato dal Department of Justice oltre-atlantico verrà accolta. In caso contrario potrebbe essere respinta. La posta in gioco per Assange è altissima. Negli Stati Uniti, il giornalista rischia di non vedere più la libertà. E c’è chi teme addirittura per la sua vita.
Nei giorni scorsi sono giunte le risposte degli USA. La seconda e la terza istanza presentate dai giudici di Londra sono state accolte. La risposta al primo quesito, invece, è a dir poco vaga: gli USA hanno detto che Assange “avrà la possibilità di provare a fare affidamento su un processo che sia sotto la protezione del primo Emendamento, decisione che può essere presa solo dalla Corte americana”.
Una risposta che appare sbagliata anche dal punto di vista concettuale. A decidere se adottare o meno il Primo Emendamento non dovrebbe essere un giudice. Ma cos’è il Primo Emendamento. La sua origine risale addirittura al 1789: fu il primo Emendamento ad essere aggiunto alla Costituzione degli Stati Uniti. Successivamente fu il primo dei dieci emendamenti che compongono il Bill of Rights. Il Primo Emendamento garantisce la terzietà della legge rispetto al culto della religione e il suo libero esercizio, nonché la libertà di parola e di stampa, garantisce il diritto di riunirsi pacificamente e di appellarsi al governo per correggere i torti. Inoltre, proibisce al Congresso degli Stati Uniti di “approvare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione”. “diritto alla libertà di parola e il diritto alla libertà di stampa”. C’è chi ha definito questo diritto la base per una cittadinanza avanzata: un governo non può avere diritti per alcuni senza concederli a tutti. Esistono, però, alcune eccezioni alla libertà di parola e di stampa. Scrivere o pronunciare parole che potrebbero costituire una minaccia per il popolo americano, come lanciare una minaccia di bomba o urlare “al fuoco” in un teatro, può limitare il diritto di una persona alla libertà di parola. Altre cose, come minacciare seriamente la vita di qualcuno, in particolare di un funzionario eletto, possono far considerare una persona un nemico dello Stato. Molti considerano il Primo Emendamento il nucleo della società americana, del suo liberismo. Ma non mancano le diatribe sul suo reale significato.
Il documento contenente la risposta degli USA ai giudici dell’Alta Corte di Londra, visionato da Reuters, afferma che Assange “avrà la capacità di sollevare e cercare di fare affidamento durante il processo sui diritti e le tutele garantite dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti”, ma che una decisione sull’ “applicabilità del Primo Emendamento è di esclusiva competenza dei tribunali statunitensi”.
Di sicuro la decisione sulla sua interpretazione e applicabilità non può essere lasciata nelle mani di un giudice. Tanto meno in un processo come quello che coinvolge Assange, sottoposto a immani pressioni politiche e mediatiche.
D’altro canto accogliere la possibilità per Assange di appellarsi al Primo Emendamento farebbe crollare tutta la persecuzione americana degli ultimi anni come un castello di carte. E far uscire Assange dal processo non come innocente, ma come vincitore.
La prossima udienza presso il tribunale di Londra è fissata per il 20 maggio, ma gli avvocati di Assange hanno già definito le assicurazioni rilasciate dagli Stati Uniti d’America come “non degne della carta su cui sono scritte”, facendo eco a critiche simili da parte del gruppo per i diritti umani Amnesty International. Ancora più duro il giudizio della moglie di Assange (i due si sono sposati mentre Assange era in prigione a Londra) che le ha definite “parole sfacciate”. “Gli Stati Uniti hanno emesso una non-assurance in relazione al Primo Emendamento, e una standard assurance in relazione alla pena di morte”, ha detto in una dichiarazione. “La nota diplomatica non fa nulla per alleviare l’estrema angoscia della nostra famiglia per il suo futuro – la sua cupa aspettativa di trascorrere il resto della sua vita in isolamento in una prigione degli Stati Uniti per aver pubblicato giornalismo pluripremiato”.
Intanto, qualcosa potrebbe cambiare a livello internazionale. La scorsa settimana, il presidente USA, Joe Biden, ha detto di stare considerando la richiesta dell’Australia di far cadere le accuse contro Assange e il Wall Street Journal ha parlato di discussioni in corso su un potenziale patteggiamento. Da quando è stato arrestato, nel novembre 2010, Assange, che è cittadino australiano, ha trascorso più di 13 anni in battaglie legali. E per cosa? Non per aver detto o scritto qualcosa di offensivo o contro la morale: solo per aver riportato documenti ufficiali nei quali si diceva quanto di sbagliato avevano fatto alcuni governi. Questo ha fatto di lui un esempio da condannare a tutti i costi e da utilizzare come esempio. Per evitare che a qualcun altro, magari ad uno dei pochi giornalisti d’inchiesta rimasti, possa venire in mente di dire cose vere, ma dalle quali emergerebbe quanto di sporco c’è dietro le azioni di alcuni governi. Se la spiegazione degli USA dovesse essere accolta come valida dal tribunale di Londra, ad Assange potrebbe restare una sola speranza: la Corte di Giustizia europea.