Kant e l’inevitabilità della pace

Articolo di Salvatore Distefano

Il 12 febbraio del 1804 morì Immanuel Kant, uno dei più grandi pensatori della storia dell’umanità. Si spense nella sua città, Königsberg oggi la russa Kaliningrad, dalla quale non si allontanò mai e dove era conosciuto per la vastissima cultura e il rigore morale, nonché per lo stile di vita prussianamente metodico, molto scrupoloso e abitudinario: mantenne la levata mattutina sempre alla stessa ora (le cinque!), e sempre alla stessa ora pomeridiana la passeggiata con costanza cronometrica; fu sempre puntualissimo alle lezioni e sempre ligio ai suoi doveri.

Herder, in una lettera famosa, lo descrive molto bene: fronte aperta come costruita apposta per pensare, sempre sereno, arguto ed erudito, aperto a tutte le istanze della cultura contemporanea, Kant sapeva valorizzare tutto e riconduceva tutto “a una conoscenza senza pregiudizi della natura e al valore morale degli uomini”. E quello che Kant ci dice di sé nella conclusione della sua Critica della Ragion pratica è meraviglioso:<<Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me>>.

Vorrei, peraltro, citare alcuni passi di ciò che Fichte, filosofo che diede vita alla fondazione dell’Idealismo tedesco, scriveva di Kant dopo averlo conosciuto:<<Il fine della nostra vita non è essere felici, ma meritare la felicità. Mi sono immerso nella filosofia, cioè nella filosofia di Kant. Vi ho trovato la medicina alla vera radice dei miei disagi, e per di più gioia a non finire. […] Il rivolgimento che questa filosofia ha operato in me è enorme. Le debbo, in special modo, il fatto che ora credo fermamente nella libertà dell’uomo, e vedo chiaramente che solo presupponendola sono possibili il dovere, la virtù, la morale in generale. […] Che fortuna per un’età in cui la morale era distrutta nei suoi fondamenti e il concetto di dovere era cancellato da tutti i vocabolari!>>.

Infine, in questi giorni in cui soffiano pericolosissimi venti di guerra e nei quali c’è bisogno di difendere la pace, come del resto afferma senza se e senza ma la nostra Costituzione (articolo 11:”L’Italia ripudia la guerra…”), mi piace ricordare il bellissimo scritto di Kant del 1795, Per la pace perpetua (Zum ewigen Frieden), che fu concepito in seguito alla notizia della pace di Basilea stipulata tra Prussia e Francia il 5 aprile del 1795, ma che trova ragion d’essere e sviluppo logico in una concezione della storia, della società e del diritto che il Nostro aveva da tempo maturato.

Il progetto della pace perpetua non è concepito da Kant come un’utopia: nulla è più estraneo alla mente di Kant che il pensiero utopico. Delle utopie in genere dice che è dolce immaginarle, ma temerario proporle e colpevole sollevare il popolo per cercare di attuarle (Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio). Il suo progetto di pacifismo giuridico non è solo ancorato saldamente a una filosofia della storia, ma è anche reso coerente dallo sfondo più ampio della sua teoria etica. Il fine della storia sociale umana è la costituzione di una società giuridica che abbracci tutta l’umanità, e che in quanto tale garantisca, insieme con la pace universale, la libertà di tutti gli individui viventi sulla terra:<<Il massimo problema alla cui soluzione la natura costringe il genere umano è di pervenire a una società civile che faccia valere universalmente il diritto>> (Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico).

I filosofi, afferma Kant, non devono fare propaganda; essi devono, piuttosto, esercitare la funzione intellettuale. In questo caso devono pensare l’impossibilità della guerra e l’inevitabilità della pace e cercare di comunicare bene ciò ad altri che con loro condividono un mondo che ha conosciuto finora, e presumibilmente conoscerà ancora, la realtà della crudeltà, della stupidità e della barbarie.

Qualcuno giudica inattuale il testo di Kant? Come scriveva Franco Fortini:<<L’inattualità diventa, nei classici, un potente additivo di significazione. Non è una qualsiasi diversità di linguaggio o di visione del mondo. È una diversità nel massimo di somiglianza. I classici hanno con il nostro presente un rapporto perturbante, di familiarità e estraneità. Sunt aliquid Manes>>.

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