Una sorta di ossessione ferina preme nelle pagine de La città del cordoglio (Eretica edizioni) di Frank Iodice. La città è Napoli ma una Napoli irriconoscibile, lontana da qualsiasi cliché, mai bucata da un raggio di sole, mai folgorata dalla luce, una città invece melmosa, porosa, irrespirabile, abitata da presenze notturne. Dentro i suoi anfratti, nei suoi luoghi oscuri, nei sotterranei che la crepano, si muovono, quasi allo stesso modo, alla stessa velocità, uomini e topi, creature guidate dallo stesso istinto di sopravvivenza, dallo stesso desiderio di sopraffazione. Creature cieche, votate alla distruzione. Ninù è un marinaio. Lascia Napoli per lunghi periodi, si imbarca, si tiene lontano. La vita in mare gli assicura ciò che desidera, ciò a cui il suo essere meglio si accorda: sparire. Nessuna epica, nessuna eco di avventure, niente Moby Dick, isole del tesoro o mari incontaminati: la nave per lui è un guscio, quasi una bara, garantisce al protagonista de La città del cordoglio una sopravvivenza minima. Ninù viene richiamato in città da quel male che credeva di anestetizzare andando per mare: i suoi genitori si sono impiccati, assieme. Quello che non gli hanno mai riservato e non si sono mai riservati – un abbraccio, l’amore, la tenerezza, la cura – se lo sono concessi nell’eternità della morte. Ninù è figlio di questa Napoli, di una città che affoga nella “sprezzatura” e dove educare significa solo far crescere i ragazzi come bestie, una città nella quale l’unica certezza è “l’impossibilità di essere felici”, nella quale l’unico imperativo è “fottersene”. È l’Albergo dei poveri – una struttura enorme, cupa, cava, dove l’unico linguaggio insegnato ai bambini, l’unica lingua che circola è quella della violenza, della prevaricazione – la vera casa di Ninù: qui apprende il dolore, la violenza, il male, il buio.
“Ninù era cresciuto in un posto dove la fragilità veniva punita con la sottomissione. Per tutta la sua giovinezza, aveva provato pertanto a non mostrare in pubblico i suoi sorrisi”.
La città del cordoglio è una città che non perdona, che non concede possibilità e se concede possibilità se le riprende con gli interessi. È una città di abbandoni, come quello doppio che trascina il padre di Ninù in un cantiere a Bergamo e che poi lo restituisce capovolto, incomprensibile perché il padre tornato è solo un simulacro di padre, un morto che non fa che rinviare la sua morte. Ma ai padri non si sfugge, Iodice lo sa: “Se vuoi davvero parlare di te, devi iniziare da lì. Tutti i racconti di un uomo sono racconti su suo padre”. E se fosse restato? Se quel padre non si fosse rarefatto nella lontananza e nell’abbandono per poi riaddensarsi in un grumo di violenza cieca? Ninù “ripensava di continuo a cosa sarebbe successo se quell’uomo non fosse partito, se fossero rimasti tutti insieme a casa loro. Subito dopo si ripeteva che a casa loro voleva dire che avrebbero fatto la fine dei topi e sarebbero morti nella colla della cantina”. Alla fine Ninù, Napoli, tutti siamo – ci costringe a pensare Iodice – come i topi che il ragazzino guardava agonizzare, zampettanti, viscidi, paralizzati in “quella colla nera, corposa”. Topi.
Dentro quel dolore, Ninù vive in uno stato di stordimento perenne. Con lui si muovono personaggi lividi, senza speranza. Le pagine di Iodice catturano questo franare ininterrotto, senza luce. Il cordoglio non contiene il seme di nessuna rinascita. Eppure “le morti si risolvono con la memoria, col perdono”.