La fase legislativa del periodo fascista, il delitto Matteotti e la dittatura

Articolo di Salvatore Distefano

Il periodo che va dal 28 ottobre 1922 al 3 gennaio 1925 è definito “legalitario” perché il fascismo mantenne alcuni istituti del vecchio stato liberale, impalcatura che poi cancellò definitivamente a partire dal ’25.

È definita fase “legalitaria” perché l’azione del governo non si differenzia da quella dei governi precedenti di cui continua la politica attuando con decisione i progetti rimasti nei cassetti ministeriali; perché l’opposizione ha modo di agitare i propri diritti, anche se in condizioni sempre più limitate dalle violenze fasciste; perché si sperava che la vita del Paese sarebbe potuta tornare alla normalità. Ma Mussolini vigilava affinché ciò non accadesse e per questo obiettivo aveva incaricato proprio gli ex-squadristi inquadrati nella Milizia.

Violenze e intimidazioni furono esercitate in tutte le province; i vari “ras” locali continuarono a bersagliare gli oppositori per costringerli alla clandestinità e se occorreva financo alla fuga. Essi si facevano forti della impunità che governo e partito assicuravano loro. In Italia fascismo e opposizione non potevano coesistere: o l’uno o l’altra!

Fu costituita anche la polizia segreta al Viminale, una organizzazione incaricata di intimidire, di “dare lezioni” agli oppositori più irriducibili. La componevano ex-arditi e squadristi abituati al metodo “forte”, che si gloriavano di avere sulla coscienza omicidi su commissione: dipendeva dal segretario amministrativo del partito fascista Marinelli. Scriveva Arturo Fasciolo segretario di Mussolini:” Erano giovanotti che amavano la bella vita; ragazze, mangiate, bevute, viaggi…Erano un po’ guasconi, perché a volte raccontavano imprese che poi risultavano inventate”.

Il fascismo dopo aver preso il potere dimostrava di volerlo tenere saldamente ed aveva tolto ogni illusione sulla possibilità di un suo recupero in senso democratico. Avrebbe continuato sulla strada dell’asservimento della classe operaia e nell’offensiva contro il ceto medio. Un riavvicinamento con gli altri partiti sarebbe stata la rovina stessa del fascismo; di qui l’ostracismo a tutti i partiti, l’inasprimento contro ogni tentativo di resistenza, la necessità per i partiti o di sciogliersi o di agire nella clandestinità accettando la sfida, preparandosi alla bufera in attesa dello sforzo liberatore.

LEGGE ACERBO

Normalizzare la vita italiana era compito del governo, ma il fascismo la intendeva come eliminazione dell’opposizione, anche sul piano parlamentare. Qui Mussolini poteva contare su 46 deputati (fascisti e nazionalisti), una ristrettissima minoranza in una Camera di 535 deputati. Il governo, necessariamente di coalizione, aveva bisogno dell’appoggio di vari partiti, determinante quello del Partito popolare italiano (PPI). Una nuova Camera dove il fascismo potesse avere la maggioranza assoluta dava la garanzia di poter governare senza tener conto dell’opposizione. Mussolini cercò di attuare questo progetto con la nuova legge elettorale proposta dal sottosegretario alla presidenza del consiglio, Acerbo. Venne illustrata alla Camera dallo stesso Mussolini il 9

Giugno 1923 ed ottenne l’adesione di massima della maggioranza, compresi gli ex-presidenti Giolitti, Orlando, Salandra. Il partito che avesse conquistato almeno il 25% dei voti, avrebbe ottenuto i due terzi dei seggi in Parlamento. Il rimanente terzo sarebbe stato suddiviso tra i partiti di minoranza. Il premio di maggioranza sottraeva il governo ai compromessi con i partiti, praticamente eliminava l’opposizione e, di conseguenza, il controllo parlamentare, il potere legislativo, sull’esecutivo.

Approvata la legge, la Camera fu sciolta e vennero indette nuove elezioni.

Elezioni amministrative erano state tenute nel febbraio 1924 con il sistema della scheda di partito, come era avvenuto nelle elezioni politiche del 1919 e del 1921. La prova per le elezioni politiche si svolse il 6 Aprile 1924 e, per la prima volta, venne adottata la “scheda di Stato” con i simboli dei vari partiti concorrenti.

La posta in gioco era tutto il potere e i fascisti non si fecero scrupoli nel mettere in atto azioni di intimidazione e di violenza contro gli avversari colpendoli per impedirne la propaganda, la presentazione e la partecipazione alle liste, l’espressione del voto; per convincere i dubbiosi e i timidi a votare la lista fascista, il cosiddetto “listone” nel quale erano confluiti anche vecchi esponenti politici tra cui Salandra e Orlando.

I fascisti ottennero oltre quattro milioni di voti, la maggioranza assoluta, ma Giacomo Matteotti raccolse una vasta documentazione delle illegalità durante la campagna elettorale e durante le votazioni.

IL DELITTO MATTEOTTI

Il 30 Maggio 1924, alla Camera Matteotti denunciava i brogli, le intimidazioni, la mancanza di segretezza del voto imputando di tutto questo i fascisti.

Dieci giorni dopo, veniva aggredito sul Lungotevere Arnaldo da Brescia e moriva sulla macchina che lo trasportava, per le ferite riportate. Probabilmente l’effetto della “lezione” aveva superato le intenzioni degli esecutori.

Il delitto e il modo della sua esecuzione provocarono enorme e vivace reazione alla Camera e nel Paese. Deputati e stampa di opposizione ne attribuirono apertamente le responsabilità al governo e ai gerarchi fascisti. Il delitto rendeva palese la natura del fascismo più di quanto non fossero riuscite le violenze consumate nel Paese fino allora.

Mussolini per settimane mantenne un atteggiamento elusivo: doveva guadagnare tempo. Il giorno successivo al delitto affermava alla Camera che Matteotti era “scomparso in circostanze non ancora ben precisate”, mentre era al corrente dell’uccisione, del modo con cui era avvenuta, degli esecutori.

Per placare l’opinione pubblica vennero arrestate diverse persone, tra queste i componenti della Ceka (fascista) e un qualificato esponente del fascismo, Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio e membro del Gran Consiglio. Seguirono dimissioni e arresti che misero in ginocchio il fascismo fino a causarne, secondo molti storici, la crisi più significativa di tutto il ventennio.

Per i deputati dell’opposizione era divenuto impossibile ogni colloquio con i fascisti e il 27 Giugno abbandonarono l’aula di Montecitorio. Nel “Manifesto” con il quale annunciavano al Paese la loro decisione, gli aventiniani indicarono esplicitamente la complicità del governo e del fascismo nel delitto Matteotti, compiuto da una “organizzazione chiamata al di fuori della legge, alla esecuzione di condanne contro gli oppositori politici”.

I deputati che parteciparono alla secessione dell’Aventino erano complessivamente 135 ed appartenevano al partito popolare, al partito socialista riformista, a quello massimalista, al partito comunista, a quello repubblicano, a quello sardista, al partito liberale, a quello democratico e a quello radicale. Nel Parlamento erano rimasti i fascisti e i loro fiancheggiatori, Giolitti e il suo gruppo e alcuni combattenti.

L’Aventino fu un gesto di protesta morale, ma non un gesto politico. Si esaurì in una dimostrazione verbale, simbolica, ma sterile. Il re, a cui alcuni esponenti aventiniani si erano rivolti, non intervenne. Nel Paese gruppi di industriali e uomini della finanza temevano un “salto nel buio” e tale sarebbe stato, secondo loro, la caduta di Mussolini sul quale avevano puntato: non volevano correre rischi.

Dopo il primo momento di sbandamento e di crisi il fascismo riacquistò sicurezza e passò all’azione. Un decreto del Luglio 1924 tentò di mettere il bavaglio alla stampa obbligando quella dell’opposizione a tacere per evitare sequestri, censure, sospensioni, processi ai direttori e ai redattori. Nonostante questo, molti giornali antifascisti continuarono a denunciare le illegalità dello squadrismo; nello stesso partito fascista, oltre la tendenza degli intransigenti, si fece strada quella dei moderati che chiedevano fosse posto un freno allo squadrismo.

Anche un gruppo di industriali, tra i quali Olivetti, Conti, Pirelli, presentò a Mussolini un memoriale per chiedere la normalizzazione della situazione e che fosse ristabilita la fiducia e garantita “l’assoluta libertà di organizzazione sindacale al di fuori di ogni pressione o inframmettenza dei poteri politici”.

LA DITTATURA

Lo sbocco di questa situazione si ebbe con il discorso di Mussolini del 3 Gennaio 1925. Il discorso, più che un tentativo di difesa, rappresentava una sfida all’opposizione, una minaccia di usare la forza per far tacere le voci dissenzienti.

L’ostentata assunzione di “responsabilità politica, morale e storica” di quanto era avvenuto, era un modo di barare per togliere credibilità alle rivelazioni sui sinistri metodi adottati dal fascismo contro gli oppositori; per mettere in ridicolo l’esistenza della Ceka al Viminale; per dimostrare

l’infondatezza delle accuse degli avversari.

Il discorso rappresentava la fine dello stato liberale, distruggeva i rapporti tra maggioranza e minoranza, era, nella “storia politica d’Italia, come la Caporetto del vecchio liberalismo e l’esplicito inizio di una fase di reazione”. Il 3 Gennaio fu affermata, dunque, la dittatura aperta, la fine della collaborazione che le opposizioni avevano annunciato, aumentavano i poteri del capo del governo e le opposizioni dell’Aventino annunciavano:

“La maschera normalizzatrice e costituzionale del fascismo è caduta. Il governo calpesta le leggi fondamentali dello stato, soffoca con arbitrio inaudito la libera voce della stampa, sopprime ogni diritto di riunione, mobilita le forze armate del suo partito mentre tollera e lascia impuniti le devastazioni e gli incendi contro i suoi avversari”.

Solo molti anni dopo arriverà il crollo del regime, precisamente il 25 Luglio del ’43, a dimostrazione che il fascismo godrà di un vasto consenso, capace di tenerlo in vita per un ventennio.

Mi piace concludere questa riflessione riportando un giudizio storiografico di Giorgio Candeloro, eminente studioso, il quale scriveva:” […] il fascismo ha con la storia precedente e con quella successiva dell’Italia un rapporto di continuità e rottura. Dall’Italia liberale il fascismo ha ereditato non solo alcune istituzioni (come la monarchia, la burocrazia, l’esercito, ecc.) e alcune tendenze di politica estera […]. D’altra parte, rispetto all’Italia post-fascista, la rottura rappresentata dalla Resistenza e poi dall’istituzione della repubblica con una Costituzione democratica è certo molto notevole.”

E a proposito di ciò che è accaduto nelle ultime settimane, è utilissimo rileggere quanto aveva annotato nel suo diario don Giovanni Minzoni, parroco di Argenta, caduto vittima dei sicari di Italo Balbo il 24 agosto 1923:” Tutte le sere che ritorno a casa passo dinanzi alla Camera del lavoro e […] ogni volta m’assale un sentimento d’invidia: quanto amerei essere là dentro; quanto bramerei d’affratellarmi a questa religione nascente; sentire più da vicino pulsare il cuore di questo organismo nuovo che è destinato – qualunque sia il suo atteggiamento odierno – a divenire una religione, e Dio voglia la religione dell’avvenire”.

Related Articles