The Lost Daughter proviene da un capolavoro di Elena Ferrante, che ormai tutto quel che tocca diventa oro, anche se un soggetto così bislacco – italiano al cento per cento – non credevamo potesse essere preso in considerazione per il debutto alla regia di una figlia d’arte. Tant’è, si vede che non sono un buon lettore di capolavori letterari e sicuramente il Festival di Venezia sa giudicare meglio, ma devo dire che il film mi ha profondamente deluso. Tre nomination agli Oscar del tutto immeritate, a mio modesto parere, per una sceneggiatura irrisolta basata sulle vicissitudini di una professoressa universitaria – di mestiere traduttrice – in vacanza in Grecia. Leda Caruso (Olivia Colman), questo il suo nome, incontra sulla spiaggia una giovane madre e tramite lei rivive un passato di donna che ha abbandonato le figlie inseguendo un amore. Assurda la storia della bambola rubata da Leda alla bambina, furto giustificato dal fatto che quel giocattolo ricorda alla protagonista l’infanzia delle figlie e una sua bambola, dono della nonna, che andò distrutta. Un film tutto girato in flashback, a ogni scena in diretta corrisponde un’immagine del passato, il disagio della madre di oggi è il disagio di una giovanissima Leda, madre ventenne che non sopportava le responsabilità. Tutto corrisponde, anche il tradimento che la giovane moglie (Dakota Johnson) perpetra ai danni del marito, persino l’insofferenza nei confronti di una figlia che pretende attenzioni. Film girato nell’isola greca di Spetses, ostacolato dalla Pandemia da Covid, impiegando gli abitanti del posto come comparse, con un impianto da cinema indipendente. Alba Rohrwacher sprecata in un ruolo marginale che avrebbe potuto ricoprire chiunque, soprattutto non valorizzata nelle sue qualità espressive. Critica concorde nel definire La figlia oscura un capolavoro, io sto dalla parte del pubblico che l’ha bocciato clamorosamente, d’altra parte non sono un fan delle tematiche affrontate dalla narrativa italiana contemporanea e a Elena Ferrante preferisco Murakami. Da salvare soltanto l’interpretazione di Olivia Colman, nei panni della protagonista, e la fotografia greca di Hélène Louvart, già sul montaggio compassato di Affonso Gonҫalves avrei qualcosa da dire perché le oltre due ore di pellicola mi sono sembrate eccessive. Sceneggiatura sfilacciata, resa pesante dai continui flashback, trama inconsistente e un personaggio di donna davvero odioso verso la quale non riusciamo a provare la minima empatia. Se questa è letteratura al cinema, accomodatevi pure.
Regia: Maggie Gyllenhaal. Soggetto: Elena Ferrante (romanzo omonimo). Sceneggiatura: Maggie Gyllenhaal. Fotografia: Hélène Louvart. Montaggio: Affonso Gonҫalves. Musiche: Dickon Hinchliffe. Scenografia: Inbal Weinberg. Costumi: Edward K. Gibbon. Produttori: Osnat Handelsman-Keren, Talia Kleinhedler, Maggie Gyllenhaal, Charles Dorfman. Case di Produzione: In the Current, Pie Films. Distribuzione (Italia): BiM Distribuzione. Durata: 12’. Genere: Drammatico. Interpreti: Olivia Colman (Leda Caruso), Jessie Buckley (Leda da giovane), Dakota Johnson (Nina), Peter Sarsgaard (professor Hardy), Oliver Jackson-Cohen (Toni), Paul Mescal (Will), Ed Harris (Lyle), Dagmara Dominczyk (Callie), Alba Rohrwacher (escursionista), Jack Farthing (Joe), Robyn Elwell (Bianca), Athena Martin (Elena), Ellie Blake (Martha), Panos Koronis (Vassili), Nikos Poursanidis (autostoppista uomo), Alexandros Mylonas (Prof. Cole).