La lezione di vita di Primo Levi, un sopravvissuto all’Olocausto

Articolo di Pietro Salvatore Reina

Sabato 11 aprile 1987 a Torino, in una città svuotata dalla prima giornata di autentica primavera, come si apprende dalla lettura dei quotidiani di allora, muore suicida Primo Levi.

Di buona famiglia ebrea borghese Levi, è come Gadda, uno scrittore-scienziato, un letterato non-professionista i cui studi scientifici hanno influenzato la sua produzione letteraria. L’altissimo valore delle sue «memorie» nasce dall’esperienza delle leggi razziali, della guerra, dall’essere stato prigioniero nel campo tedesco di sterminio di Monowitz, che faceva parte del sistema dei campi di Auschwitz.

Levi nasce a Torino il 31 luglio 1919. Completa la prima formazione scolastica al Liceo «D’Azeglio» per poi laurearsi in Chimica nel 1941. La morte del padre e gli effetti delle leggi razziali (introdotte nel 1938) accrescono le difficoltà famigliari. Nei primi anni Quaranta si unisce a un gruppo di partigiani operanti in Val d’Aosta. Alla fine del 1943 viene arrestato e avviato, come ebreo, nel campo di concentramento di Fòssoli (Modena), da dove, all’inizio del 1944 viene deportato in Germania. L’essere sopravvissuto alla deportazione per Primo Levi è stato, è il compito e lo scopo della sua vita interiore e letteraria. «Meditate che questo è stato» – un verso di una poesia che apre il racconto-diario Se questo è un uomo (1957) suggella il valore, l’importanza della memoria. La scrittura come testimonianza si incastona nella cultura biblico-ebraica e in quella illuministica: testimoniare la degradazione della storia contemporanea è il compito dell’uomo, dello scienziato, dello scrittore Primo Levi.

L’«impegno della memoria» costruisce Se questo è un uomo pubblicato nel 1947 dall’editore De Silva e poi riproposto nel 1956, con grande successo, dalla casa editrice torinese Einaudi (che in un primo momento lo aveva rifiutato).

Il successo mondiale di Se questo è un uomo e del nuovo libro di memorie La tregua (1963) lo spingono – lasciato, nel 1975, il lavoro di chimico – a dedicarsi interamente alla Letteratura. La sua è una scrittura segnata da una misura di classicità linguistica, essenziale, estremamente razionale, asciutta. Il tema della produzione di Levi è l’«Uomo», la «condizione umana» analizzata, catturata, raccontata con coscienza e forza nelle contraddizioni e negli orrori della guerra, del fascismo e del nazismo. Le pagine dell’ampia produzione di Primo Levi sono un’«inchiesta»: perché esiste il male? Perché alcuni si salvano e altri no?

La scrittura di Primo Levi rivela l’acuto contrasto tra la fiducia/amore biblico-sapienziale nella e della memoria e la fiducia illuministica della e nella ragione con l’assurdo orrore dal quale è stato «sommerso e salvato» nella sua giovinezza. Un orrore che accompagna e accompagnerà tutta la sua esistenza.

Nel mese di ottobre del 1978 ricordando sulla Stampa la morte suicida del grande scrittore austriaco Jean Améry (pseudonimo di Hans Chaim Mayer), sopravvissuto all’Olocausto, Primo Levi scrive che «nessuno, neppure il suicida, conosce le ragioni della propria morte».

Nel gennaio 1987 scoppia in Europa la polemica sul revisionismo. Primo Levi interviene con un articolo sulla Stampa dal titolo «Buco nero ad Auschwitz».

Nel mese di marzo, sempre dell’anno 1987, Primo Levi subisce un intervento alla prostata a causa del quale aveva sospeso gli antidepressivi. In questo periodo, tra l’altro, era molto preoccupato per la salute della madre, Ester, allora novantaduenne che da poco era stata colpita da un ictus e della suocera.

L’11 aprile 1987 il corpo esamine di Primo Levi viene trovato, intorno alle ore 10:20, a terra nella tromba delle scale dell’appartamento natale sito in corso Re Umberto al numero 75 dalla portinaia Jolanda Gasperi e pochi istanti dopo dalla moglie Lucia Morpurgo.

Ai funerali celebrati alle 14:30 del 13 aprile presso l’Istituto di Medicina legale il rabbino Emanuele Artom lesse il Salmo 91: «Non temerai i terrori della notte / né la freccia che vola di giorno, / la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno. / Mille cadranno al tuo fianco / e diecimila alla tua destra / ma nulla ti copra colpire».

Primo Levi amava definirsi un ebreo «laico». Non andava in sinagoga. Il giorno prima di morire – racconta sulla Stampa Anna Bises Vitale, allora vicepresidente della comunità ebraica torinese, aveva telefonato per sapere se fossero arrivate le azzime, il pane senza sale della Pasqua ebraica che si sarebbe festeggiata nel giorno del suo funerale.

Related Articles