Gabriele Galloni (Roma, 1995 – 2020) l’ho scoperto con L’estate del mondo – forse il suo lavoro più compiuto -, approfondendo la sua opera con la lettura delle brevi plaquette Creatura breve e Bestiario dei giorni di festa, due lavori interessanti per inquadrare l’autore in un mondo ben delimitato, tra mare e periferia romana, per capire meglio il male di vivere tra cose perdute e il desiderio di rendersi terra fertile senza morire, di vivere senza soluzione. La luna sulle case popolari esce postumo, con il sottotitolo emblematico di Poesie e prose sui luoghi dell’anima – e raccoglie gli scritti giovanili (non è facile usare questa dicitura per un poeta scomparso a soli 25 anni), vergati quasi di getto tra il 2011 e il 2014, post adolescenziali (16 – 19 anni), in certi casi (soprattutto nella poesia) maturi e compiuti. La narrativa breve, gli spezzoni di romanzi, i racconti metaforici ricordano il Pasolini più giovane, sembra di rileggere le bozze di Una vita violenta e Ragazzi di vita nei passaggi più romantici, molto pascoliani e deamicisiani. Galloni affonda la penna della sua scrittura nella periferia romana, il Trullo, ritratto di se stesso e delle sue angosce, dei primi amori, una sorta di terra mitologica, fuori dal tempo, un mondo di palazzi e campi dove coltivare illusioni e sogni, dove affrontare l’ambiguità e l’incertezza, secondo la lezione del Pilade di Pasolini. Tutto comincia con l’estate al quartiere Trullo, periferia di Roma, cuore nevralgico del mondo di un poeta, appena fuori dalla Magliana Vecchia, superata Muratella e lasciato Ponte Galeria, quando si apre un mondo di pini marittimi e vallate, di colline che annunciano il mare, un luogo crepuscolare in piena sintonia con la poesia di Gabriele, un misto di salsedine e di colori intensi che da lontano lascia intuire Fiumicino. Il Trullo, frontiera di Roma e di un mondo dove il poeta fa muovere personaggi come se fossero ritratti evanescenti, ingenui ma profondi, simbolici e realistici, luogo ideale per un tentativo di romanzo del quale non sono rimasti che poveri frammenti. Via Ventimiglia e una parrocchia, un oratorio dove sembra di vedere ragazzini giocare a calcio, quel colore giallo chiaro delle case popolari e il grigio delle strade sterrate, la collina di Montecucco e la piazza per ballare e sentire musica, il bar del quartiere dove nascono gli amori per dar vita a un’estate infinita dove non è possibile essere infelici. Adele Costanzo ha operato una scelta accurata dei testi, alternando brevi prose a testi poetici (la cosa migliore della raccolta), così come il libro gode della colta introduzione di Roberto Renna e di una nota affettuosa (e profonda) del grande Antonio Veneziani. Per invitarvi a leggere questo libro giovanile, nella speranza che un giorno si possa compilare un Meridiano contenente l’opera omnia di Gabriele Galloni, trascrivo alcune poesie e brani di prosa che mi hanno colpito in modo particolare.
Il vento fra i rami sottili
Il vento fra i rami sottili
d’autunno non lascia speranze.
Un fruscio continuo e la notte
discende pian piano, pian piano …
Si spegne la luce. I cortili
di via Ventimiglia son vuoti.
Un qualche geranio, le rotte
canzoni a singhiozzi, lontano.
Un brano estrapolato da Visione, vera e propria prosa poetica …
Mi sdraiai sull’erba umida di rugiada, con la luna proprio sopra, davanti ai miei occhi. C’erano le case popolari, riflesse nelle pianure celesti, simili a tanti blocchi d’argilla tumefatta; c’era via Ventimiglia che più non era via Ventimiglia, ma un piccolo sentiero disperso nella notte, illuminato da minuscoli lampioncini di vetro. C’era Fiumicino, il lungomare, l’autostrada: tutto riflesso in una pozza d’acqua argentea, livida. C’erano le stradine di campagna, costeggiate da campi di grano umidi di pioggia. C’era la collina, simile a un seno reciso di vergine e ricoperto d’erbaccia come una vecchia tomba. E c’ero io: con gli occhi mezzo chiusi dal sonno e il respiro affranto.
Un altro tratto da L’ultima partenza, dal sapore profondamente pasoliniano …
I giardinetti delle case popolari dormivano il sonno dei panni stesi ad asciugare e dei vecchi palloni di cuoio lasciati in giro per comodità. I due giovani rimasero in silenzio per una decina di minuti, tanto era dolce per loro il silenzio vellutato della notte. Ognuno ascoltava il respiro dell’altro confondersi con il proprio. Sandro respirava velocemente, come più si confà a un oratore; Claudio aveva il respiro placido di un Endimione che attende la sua luna. E la luna era lì, alta nel cielo. L’ostia perenne portata in processione dagli angeli e dai cherubini innamorati.
Un bianco pomeriggio senza vento
Un bianco pomeriggio senza vento,
noi ce ne andiamo soli per la strada,
lì dove l’erba al passo si dirada
in chiazze sparse. Il cielo un poco spento
si unisce al mare, quasi, da lontano.
In mezzo ai giunchi il fruscio calmo, lento
del fiumiciattolo, quasi d’argento,
visto nel sole dell’Agro romano.
Stanchezze dell’addio, del ritornare
sempre sui nostri piedi un poco stanchi
verso altri lidi forse più lontani.
Cerco nel sogno le tue stanche mani,
e la dolcezza pallida dei fianchi:
il sangue malinconico del mare …