La poesia bucolica in Virgilio e Teocrito

Articolo di Marco Fumagalli

Sebbene Virgilio sia stato il primo nel mondo romano ad aver composto poesie pastorali, egli si rifece alla consolidata tradizione letteraria alessandrina, attiva dal III secolo a.C., in cui spiccò la figura del poeta greco Teocrito, riconosciuto come “l’inventor” della lirica bucolica. Il genere e il modello sono gli stessi, tuttavia il contesto storico è molto diverso. Prima di cogliere gli elementi di continuità e di divergenza tra i due poeti, occorre chiarire cosa sia la poesia bucolica. L’etimologia di riferimento è la parola greca “βουκόλος”, bovaro, pastore.

Si tratta di una poesia in cui figure di pastori, nel contesto di un paesaggio agreste, idealizzato, comunemente detto locus
bucolicus o amoenus, compongono ed eseguono melodie in gara tra loro. Tuttavia, se Teocrito descriveva dei luoghi reali, Virgilio ambienta i suoi componimenti poetici nella remota regione dell’Arcadia. Il poeta alessandrino ricevette l’investitura poetica proprio da un capraio, αἰπόλoς. Egli si chiama Licida (come leggiamo nell’idillio 7 al verso 13) “οὔνομα μὲν Λυκίδαν”, con la patinatura tipica della sua lingua, il dialetto dorico.

Questo idillio (dal greco εἰδύλλιον, componimento breve) è il più importante della raccolta teocritea, poiché ci consente di leggere il manifesto programmatico della poetica dell’autore che intende realizzare una ricerca della verità. Tuttavia c’è una differenza sostanziale tra i due poeti bucolici che va al di là del contesto storico. Il sommo poeta latino risente l’influsso del paesaggio della pianura padana da cui egli proveniva. Inoltre Virgilio fa riferimento ad eventi a lui attuali “o Meliboee deus
nobis haec otia fecit” (O Melibeo, è un dio che ha preparato questa pace per noi), ovvero il poeta allude direttamente ad Augusto che protegge Titiro mentre Melibeo, combattente a Filippi, non sa dove tornare.

Teocrito, invece, legato ad un mero esercizio poetico, non inserisce nei suoi componimenti temi di carattere politico. Anche l’ambientazione dei rispettivi componimenti non è la medesima. Infatti, se in Teocrito predomina il paesaggio di tipo ameno,
spensierato e sereno, in cui Simichida (alter ego di Teocrito) può invitare serenamente Licida a comporre canti pastorali (come indica il congiuntivo esortativo al verso 36 dell’idillio 7, βουκολιασδώμεσθα), diverso invece è lo stato emotivo dei personaggi delle egloghe virgiliane. Ancora, la tranquillità con cui i protagonisti dell’idillio 6, Dafni e Daméta, impegnati rispettivamente a cantare l’amore di Galatea per l’indifferente Polifemo e l’astuzia di Polifemo nel far ingelosire Dafni, non è certamente la stessa che caratterizza i protagonisti nell’egloga 9.

Infatti, il Licida virgiliano cerca di spronare Meri nel cantare ma egli risponde a stento, si limita a recitare, non senza qualche fatica, cinque versi sul tema del Ciclope innamorato. Emerge, dunque, nelle poesie di Teocrito una maggiore vivacità narrativa con una forte introspezione psicologica in personaggi quali Polifemo. Il personaggio mitologico non viene presentato infatti in tutta la sua forza e in tutto il suo vigore ma come un innamorato ferito dal rifiuto di Galatea. Virgilio compone le eglogle nella seconda metà del I secolo a.C. Dopo la battaglia di Filippi del 42 a.C.,

Marco Antonio e Ottaviano Augusto si spartiscono i territori della repubblica romana, confiscandoli ai contadini, per ripagare i veterani del contributo profuso nella guerra contro i cesaricidi. Pertanto, come possono essere felici e sereni i personaggi delle egloghe virgiliane che, per quanto rappresentanti nomi fittizi, personificano i contadini di un periodo così drammatico? Come può Meri assecondare felicemente l’invito a cantare? Non può più essere lo stesso canto perché non sussistono più le circostanze che permetterebbero davvero di valorizzare il “locus amoenus”. Virgilio, per staccarsi dalla triste realtà dei suoi tempi,
si avvicina dunque alla tarda poesia bucolica greca, priva di un’acuta osservazione della realtà. Il luogo bucolico non si configura più come una circostanza favorevole per praticare l’ἀσυχία, la tranquillità, come invitavano a fare le filosofie in questo periodo come l’epicureismo.

Mentre i personaggi teocritei si dedicano esclusivamente al canto e all’amore, due temi tra loro complementari, in quanto la poesia serve per inneggiare all’amore e risollevare gli animi dei personaggi (e l’amore, dal canto suo, viene rappresentato in forma poetica), in Virgilio emerge il tema della guerra civile, antitetico a quello della pace. Da queste tristi circostanze consegue quel senso di sconfitta, di vuoto, la necessaria riduzione al minimo di ogni speranza e un’impossibilità di ricordare, di cantare e di trasmettere il canto. Queste sono le conseguenze legate all’azione di Marco Antonio e Ottaviano Augusto che si sono spartiti i territori della Repubblica romana, confiscandoli ai contadini, la cui condizione è richiamata dai personaggi virgiliani, affinché i veterani di guerra potessero essere ripagati per il loro contributo militare.

Nella quarta egloga, il ritmo sentimentale della narrazione virgiliana si concretizza nella speranza di un mondo migliore che si realizza con la nascita di un puer, che caratterizzerà l’inizio di un’era nuova fatta di pace e prosperità. Nel puer è facilmente ravvisabile la figura storica del figlio di Asinio Pollione, console e mediatore nella pace di Brindisi tra Antonio e Ottaviano. Tuttavia per altri studiosi, il sostantivo puer acquisirebbe un valore simbolico, pieno di speranza. Esso svolge una funzione politica che fa da riferimento ad un modello a cui la nuova generazione avrebbe dovuto uniformarsi. Solo così sarebbe potuta rifiorire l’età dell’oro, l’archetipo mitico in cui il mondo bucolico, le egloghe, costituiscono una specifica attuazione contro quel presente di espropriazioni e vicessitudini politiche da cui si vuole rinascere, da cui si auspica un allontanamento e una rigenerazione della società, della storia, che abbia nella natura il suo seme, quella natura che rendeva tanto felici i personaggi teocritei.

Nella bucolica virgiliana numero 1, il lettore percepirà inizialmente la dimensione bucolica stagliarsi con imponenza salvifica e minacciosa allo stesso tempo; in seguito, il riferimento sarà soprattutto alla città e alle dinamiche che si ripercuotono sulla serenità dei contadini, sulla loro incolumità e addirittura sul rischi di abbandonare il luogo dove hanno condotto la maggior parte della loro esistenza. Infatti Melibeo si rivolge a Titiro dicendo: “nos patriae finis et dulcia linquimus arva“(noi lasciamo il suolo della patria e i dolci campi), “nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra formosam resonare doces Amaryllida silvas” (noi fuggiamo (in esilio) dalla patria; tu, Titiro, placido all’ombra insegni ai boschi a echeggiare Amarillide bella). In questi versi inoltre si allude anche alla fortuna di chi, avendo Ottaviano dalla sua parte, il deus, può godere di una migliore condizione. Infatti risponderà Titiro, nonchè Virgilio, che la sua pace è opera di un Dio “O Meliboee, deus nobis haec otia fecit“ (o Melibeo il Dio ci ha fatto questi ozi).

Anche in questo punto è ravvisabile una divergenza sostanziale tra i personaggi virgiliani e teocritei in quanto questi ultimi non sono accostabili a nessuna personalità storica realmente esistita. Inoltre, nelle Bucoliche virgiliane è riscontrabile una struttura circolare che lega i temi di attualità trattati attraverso riferimenti a personaggi reali. Invece i personaggi di Teocrito non hanno di questi problemi: vivono la serenità di un ambiente incontaminato, dove è possibile immergersi nella natura stando distesi e praticando l’amore. Infatti nell’idillio 6 si legge “ἐπὶ κράναν δέ τιν᾿ἄμϕω ἑσδόμενοι θέρεος μέσῳ ἄματι τοιάδ᾽ ἄειδον” (presso una fonte stavano seduti entrambi, d’estate nel pomeriggio e cantavano); […] “βάλλει τοι, Πολύφαμε, τὸ ποίμνιον ἁ Γαλάτεια
μάλοισιν, δυσέρωτα καὶ αἰπόλον ἄνδρα καλεῦσα” (scaglia mele Galatea verso il tuo gregge, o Polifemo, e capraio ti chiama incapace di amare).

Dal punto di vista stilistico, anche se Virgilio usa l’esametro come Teocrito, non lo fa per sua volontà di emulazione ma, anzi, se ne serve per rimarcare l’originalità della sua poesia. Anche dal punto di vista lessicale notiamo una divergenza. Teocrito, con uno stile artificioso, usa la lingua comune greca, κοινή, mentre Virgilio è caratterizzato da un ulteriore semplicità linguistica in quanto il suo intento è quello di riprodurre la realtà del mondo pastorale. Ovviamente,, queste peculiarità virgiliane non sono ravvisabili nella quarta egloga “Paulo maiora canamus“(cantiamo cose di poco più elevate), in cui il poeta afferma apertamente la necessità di uno stile più elevato, in accordo con gli argomenti trattati. In Teocrito invece è costante la preoccupazione per la cura formale. Il punto di contatto tra i due risulta essere la calibrata eleganza dei personaggi. Nonostante siano dei pastori, essi hanno una loro singolarità. È però doveroso sottolineare che Teocrito non è semplicemente un poeta bucolico ma riprende la tradizione dei mimi per la loro brevità; lo sfondo non è urbano e il tema non è erotico ma sentimentale. Teocrito riprende i mimi siracusani in prosa in esametri.

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