“La proprietà non è più un furto”, fa parte della trilogia della nevrosi di Elio Petri

Articolo di Gordiano Lupi

Regia: Elio Petri. Soggetto e Sceneggiatura: Elio Petri, Ugo Pirro. Fotografia (Eastmancolor): Luigi Kuveiller. Scenografia e Costumi: Gianni Polidori. Musica: Ennio Morricone. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Produttore: Claudio Mancini. Distribuzione: Titanus. Durata: 125’. Interpreti: Ugo Tognazi (il macellaio), Flavio Buci (Total), Daria Nicolodi (Anita), Salvo Randone (padre di Total), Orazio Orlando (il brigadiere Pirelli), Mario Scaccia (Albertone), Gigi Proietti (Paco, l’argentino).

La proprietà non è più un furto fa parte della trilogia della nevrosi di Elio Petri, rappresenta la nevrosi da denaro, insieme a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (potere) e La classe operaia va in paradiso (lavoro). Sono tre film scritti in collaborazione con Ugo Pirri, tutti fortemente politici, quasi manifesti ideologici di un programma più a sinistra del Partito Comunista Italiano, aborriti con uguale forza dalla critica di destra e dalla sinistra schierata con l’apparato. Forse solo Il Manifesto parlò in termini entusiastici de La proprietà non è più un furto, il meno riuscito della trilogia, il più grottesco e il meno premiato. In concorso al Festival di Berlino e presentato alle Giornate del cinema di Venezia (1973) non ottiene riconoscimenti, viene sequestrato per oscenità e infine fa registrare un buon successo di pubblico, spacciato dal distributore Lombardi come commedia all’italiana, vista la presenza di Tognazzi. Prima proiezione il 3 ottobre 1973. Incasso finale quasi un miliardo e mezzo di vecchie lire.

La trama non è la cosa più importante, ma va riferita in estrema sintesi. Total (Bucci) – il nome è tutto un programma – è un impiegato di banca allergico al denaro, figlio di un ex bancario integerrimo (Randone), convertito al marxismo-mandrakismo, che diventa ladro per ideologia, perseguitando ciò che per lui è il simbolo del capitalismo: un laido macellaio romano (Tognazzi) cliente della sua banca, che possiede una bella amante (Nicolodi) e tanto denaro. Il suo scopo è derubarlo, poco a poco, di tutto, persino della sua donna, che cerca di concupire, del coltello con cui affetta la carne, dei gioielli e del denaro. Si fa aiutare da un romantico scassinatore – attore (Scaccia) che gli insegna il mestiere, ma resta incastrato nel meccanismo e alla fine muore di crepacuore in questura. Il padrone ha la meglio – come sempre – e strangola il suo persecutore in ascensore.

Roberto Chiesi ha scritto un saggio molto esaustivo su La proprietà non è più un furto, contenuto nel volume L’ultima trovata – Trent’anni di cinema senza Elio Petri (a cura di Diego Mondella – Pendragon, 2012), parlando di “un apologo cadenzato da sequenze, un atto di accusa contro la borghesia, grottesco e caratterizzato da un forte pessimismo”. Il film fu attaccato con vigore da molta critica italiana, che lo definì brechtianeggiante, pieno di squilibri narrativi e privo di chiarezza ideologica. Elio Petri fu molto contrariato, per non dire indignato, ma si consolò con la buona accoglienza riservata alla pellicola in Francia e in Germania. Non è un film facile, rivisto oggi va storicizzato alla temperie culturale italiana del post Sessantotto altrimenti si finisce per non comprenderlo. La Cineteca di Bologna, nel quarantennale della pellicola, ha provveduto a un pregevole restauro in digitale. La proprietà non è più un furto resta uno specchio del suo tempo, un film programmaticamente marxista, un noir grottesco, a tratti commedia nera, pervaso di erotismo malsano, intriso di una decadente isteria. Alla base di tutto c’è l’odio di classe, il disprezzo verso i nuovi ricchi, rozzi e incolti, ben rappresentati da Tognazzi che si esprime in un romanesco persino eccessivo. L’erotismo stigmatizza una nuova forma di possesso: Daria Nicolodi alle prime armi, mai vista così sensuale, è la donna oggetto che si mostra nuda in scene scabrose, talmente eccessive da scandalizzare la solerte censura. La banca, vista come una chiesa, un tempio, utile solo per chi possiede, non per chi vorrebbe cercare di vivere meglio, così come la casa del macellaio è il regno del cattivo gusto, della ricchezza volgare. Non meno negativa la figura del padre di Total, un Salvo Randone bravissimo, onesto per vigliaccheria, ma quando si trova in possesso del denaro non vorrebbe mollarlo. Surreale il suo interrogativo rivolto al figlio: “Non sei ladro, non sei onesto. Ma chi sei?”. Flavio Bucci è fantastico, un vero mattatore, che contende il primato al rivale Tognazzi, uno scontro epocale tra due diversi tipi di follia. Bene anche Orazio Orlando, il brigadiere Pirelli (altro nome che è tutto un programma), un poliziotto timoroso di decidere, impaurito dal giudizio della stampa e in fondo servo del potere. Mario Scaccia è un romantico scassinatore che interpreta la parte di se stesso in un vecchio numero di teatro che ricorda Petrolini. Luigi Proietti si ritaglia un piccolo spazio quando nel finale recita l’omelia per il ladro scomparso, una sorta di elogio funebre perché “senza i ladri l’economia finirebbe a rotoli”, quindi “un ladro che muore sul lavoro è un eroe, perché rubando alla scoperto giustifica i ladri che rubano protetti dalla legalità”.

La proprietà non è più un furto è un film teatrale, interpretato da molti attori di teatro, originale come impianto scenico, perché i protagonisti (Bucci, Tognazzi, Orlando, Nicolodi e Scaccia) si presentano al pubblico, ripresi in uno sfondo nero, per narrare la loro visione della vita, aprendo i vari segmenti narrativi. Il capitalista che usa il denaro per fare altro denaro, per soggiogare i poveri, per esibire potere e ricchezza è un esempio di squallore prelevato dalla realtà. Daria Nicolodi che fa l’amore con lui “ferma come una bistecca”, perché è un oggetto, un lusso comprato con il denaro, si mostra come “un insieme di tette, cosce, pancia”, che vive “come un vaso pieno di buchi, aperto come un barattolo di pelati, col cazzo o con le dita…”. Il suo messaggio vorrebbe essere femminista, di ribellione, ma resta confinato nel pessimismo, perché sia lei che Total sono incapaci di sconfiggere il capitalista (il vero ladro). Il film gode di un testo molto letterario: “La proprietà non è un furto, è una malattia… Io vorrei essere e avere…, a volte ispirato a Erich From. Alcune sequenze sembrano citare il poliziottesco e il thriller italiano, così come la colonna sonora di Ennio Morricone a tratti rievoca il cinema di tensione, la suspense tipica del genere. Molte sequenze sono girate in primo piano, le espressioni dei volti sono stralunate, allampanate, grottesche, per sottolineare l’assurdità delle situazioni. La soggettiva viene usata in abbondanza, lo spettatore si trova catapultato nello schermo e vive in presa diretta le situazioni. Da notare che i titoli di testa scorrono su un fondale composto da un quadro di Renzo Vespignani.

Rassegna critica. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “Un disastroso tentativo di apologo grottesco e politico, verboso e inutilmente espressionista che cerca di utilizzare uno stile brechtiano per descrivere a patologia di un disfacimento sociale che si rivela però metafisico e antistorico”. Morando Morandini (due stelle e mezzo per la critica, tre stelle per il pubblico): “Storia di una persecuzione e apologo grottesco in chiave espressionistica – brechtiana sulla nascita della disperazione in seno alla sinistra (Petri), il film segna il passaggio del regista a quella fase catastrofica, apocalittica e quaresimale che sarà accentuata in Todo modo (1976). Troppo cupo, piuttosto isterico nella constatazione di un fallimento, privo di ironia e di gioia nel gusto della trasgressione. Notevoli la fotografia livida e deformante di Luigi Kuveiler e il concertato dagli interpreti”. Pino Farinotti concede tre stelle ed è in sintonia con la nostra valutazione, senza approfondire l’analisi critica. A nostro parere il film è un dramma brechtiano molto ben costruito, la sua forza sta nel pessimismo cosmico di cui è pervaso, quel che lo fa essere

ancora attuale è proprio l’incerta ideologia di cui è intriso, la difficoltà a generare speranze, preferendo una morale cupa ancora attuale è proprio l’incerta ideologia di cui è intriso, la difficoltà a generare speranze, preferendo una morale cupa e rassegnata. Da rivedere e meditare, senza pregiudizi.

Related Articles