La Resistenza: una lezione tra memoria e sfida da vivere con i nostri alunni proposta dal professore Pasquale Vitale

Articolo di Pietro Salvatore Reina

Per comprendere e spiegare il fenomeno complesso e articolato della Resistenza è necessario compiere un salto indietro, smuovere la memoria degli inizi del «secolo breve» (E. Hobsbawn).

Il nostro Paese vince il Primo conflitto mondiale ma non «riesce a vincere la pace». Gabriele D’Annunzio parla di «vittoria mutilata» e il 12 settembre 1919, alla guida di un gruppo di ex combattenti, occupa in segno di protesta la città dalmata di Fiume. Gli anni 1919-1920 («il biennio rosso») sono caratterizzati dall’aumento dei prezzi, dalla disoccupazione che colpiscono soprattutto i ceti più poveri. Operai e contadini – in questi anni – votano in massa per il Partito socialista. Dall’altro lato, invece, il ceto medio, la borghesia e i proprietari terrieri chiedono, a grande voce, un esecutivo più forte in grado di sedare i continui scioperi e manifestazioni. Le tre forze parlamentari italiane (socialisti, liberali e cattolici) non riescono a mettersi d’accordo, si dimostrano timorose. È in questo complicatissimo periodo che emerge la figura di Benito Mussolini, ex direttore del giornale socialista «l’Avanti!», che fonda a Milano il quotidiano «Il Popolo d’Italia» aspramente critico nei confronti del governo. Il 23 marzo 1919 Benito Mussolini a Milano, in piazza San Sepolcro, fonda i Fasci italiani. Un giovane deputato socialista, Giacomo Matteotti, descrive così le azioni punitive, le violenze delle «squadre d’azione» verso operai e contadini in sciopero: “nel cuore della notte, mentre i galantuomini sono nelle loro case a dormire, arrivano i camion di fascisti nelle campagne, nei paesi. Circondano la casa, intimano di scendere. Se il capolega (il coordinatore delle associazioni soprattutto contadine aderenti alla Camera del lavoro e sostenute dal Partito socialista) non scende gli bruciano la casa, la moglie e i figli. Se il contadino apre la porta, lo pigliano, lo legano, lo portano sul camion, gli fanno passare le torture più inenarrabili fingendo di ammazzarlo, di annegarlo, poi lo abbandonano in mezzo alla campagna, nudo, legato a un albero. Se il capolega è un uomo di fegato e non apre e adopera le armi per la sua difesa, allora è l’assassinio immediato che si consuma nel cuore della notte (cfr. C. Modena, Giacomo Matteotti, 1885-1985. Riformismo e antifascismo, Ediesse, p. 95).

Il Governo e il Parlamento si dimostrano ancora una volta pavidi, incapaci e Mussolini organizza una «prova di forza» per impressionare il re e a convincerlo ad affidargli il potere. Il re Vittorio Emanuele III stanco di governi deboli e incapaci affida a Benito Mussolini l’incarico di formare un nuovo esecutivo. Con Mussolini al potere assistiamo alla fine dello Stato liberale. Il 10 giugno 1924 viene assassinato da sicari fascisti il deputato socialista Giacomo Matteotti che nel celebre discorso del 30 maggio 1924 aveva denunciato alla Camera le numerose illegalità compiute dalle camicie nere. Il delitto Matteotti suscita un’ondata di indignazione in tutto il Paese. Il fascismo sembra aver passato ogni limite e gli altri partiti decidono, per protesta, di abbandonare l’aula parlamentare (la cosiddetta «Secessione dell’Aventino») e di attendere l’intervento del re. Ma Vittorio Emanuele III non fa nulla e spiana la strada alla dittatura. Le leggi eccezionali del 1925 (leggi fascistissime) trasformano il nostro Paese in un regime autoritario. Molti sono gli oppositori (come Antonio Gramsci che viene incarcerato o Pietro Gobetti, don Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini che scelgono la via dell’esilio o i fratelli Carlo e Nello Rosselli che a Parigi fondano nel 1929 il movimento «Giustizia e Libertà». L’antifascismo ha avrà un grande peso per il futuro del Paese. Sarà / è linfa vitale per la Resistenza, appunto, e fornirà gran parte degli uomini e donne dell’Italia repubblicana (Teresa Mattei, Pietro Nenni, Nilde Iotti, Giuseppe Saragat, Sandro Pertini). Uomini e donne in piedi sul cammino della Storia atti a smuovere, con la forza delle loro azioni e parole, la nostra memoria.

La progressiva scomparsa dei protagonisti della storia della Resistenza pone interrogativi su come «raccontarla» nello «spazio aperto» – che per etimologia – è la scuola. Da anni in «questo spazio aperto» opera il professore Pasquale Vitale, docente di ruolo di Filosofia e Storia presso il Liceo Classico «Domenico Cirillo» di Aversa (Caserta) con il quale non si intende fare solo il punto sulla Resistenza quanto applicarsi (alias studiare) a farne una potente «leva» per affrontare tra i banchi di scuola la vita dei protagonisti della Resistenza da protagonisti.

D.: Tra i banchi – in questo difficile tempo post-pandemico – come i fatti, le azioni, le parole degli uomini e delle donne della Resistenza possono rafforzare, indirizzare, irrobustire la dimensione emozionale e sentimentale delle giovani generazioni?

R.: Per rispondere a questa domanda, ricorro a una lettera che l’intellettuale partigiano Giaime Pintor scrisse al fratello Luigi. In questa lettera si descrivono le sofferenze e i dolori di giovani generazioni sconvolte dalla guerra che ha costretto tanti a «prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è alcuna possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento». Ecco, attraverso lo studio della Resistenza i giovani possono imparare cosa significhi in alcuni fondamentali momenti sacrificare il proprio “gusto individuale”, la propria “indifferenza”, “i propri comodi ripari” in nome di una causa collettiva, di un terreno comune di cui prendersi cura. La Resistenza- come afferma Pintor (G. Pintor, Giaime a Luigi Pintor [28 novembre 1943] in Id., «Il sangue d’Europa», Einaudi, pp. 245-248) – insegna, infatti, che quando la politica smette di essere ordinaria amministrazione impegna tutte le forze sociali che lottano per liberarsi da un nemico comune. Pintor a un certo punto della lettera scrive qualcosa di importante «Una gioventù che non si conserva disponibile, che si perde nelle varie tecniche, è compromessa». Ha ragione, se non si è in grado di trasferire le proprie conoscenze e le proprie abilità sul piano di un’utilità più ampia e se ciascuno non sa quale sia il proprio ruolo, siamo perduti! Si rischia, per usare un’immagine dantesca, di essere come gli sciaurati «a Dio spiacenti e a’ nemici sui» (Inferno III, 63), come il manzoniano Don Abbondio, la cui vita consisteva nello «scansar tutti i contrasti. Neutralità disarmata in tutte le guerre» (I promessi sposi, capitolo I) o ancora come gli indifferenti affetti da abulia e parassitismo di cui parla Antonio Gramsci.

D.: La Resistenza è memoria ma anche sfida. Attraverso quali metodologie le lezioni della Resistenza possono diventare, nelle classi della scuola secondaria, «esercizi di vita», «esercizi» efficaci da interiorizzare e vivere quotidianamente?

Da un punto di vista metodologico, alla ricostruzione dei fatti affianco la storia del dibattito storiografico. Parto di solito dalla tesi provocatoria espressa da Renzo De Felice (storico fondamentale per la monumentale biografia di Benito Mussolini) che in un libro intervista del 1995 «Rosso e nero», affermò che il vero atto fondativo dell’Italia uscita dalla guerra non era stato il 25 aprile 1945 (giorno della Liberazione), ma l’8 settembre 1943. Una presa di posizione che spiazza, specialmente se teniamo conto degli eccidi di Boves, di Sant’Anna di Stazzema, di Marzabotto, e molti altri in cui persero la vita tanti partigiani. Questa provocazione, al di là dell’ovvio clamore che suscitò (penso alla reazione di Norberto Bobbio et alii), è però funzionale ad alimentare il dibattito su cosa sia stata la Resistenza. Di solito, prima del dibattito offro ai miei allievi un panorama storiografico, partendo dai contributi nati nel clima politico della liberazione. Prendo dunque in esame stralci dai diari di Battista Lazagna, di Pietro Chiodi e Luciano Bolis. Tali testi sono il frutto di testimonianze attraverso cui si descrivono, con un certo compiacimento, prove fisiche, violenze dei nazifascisti, aspetti dei blitz e percorsi autobiografici. Seguendo il consiglio di Italo Calvino che nei «Sentieri dei nidi di ragno» invita a diffidare di un’immagine troppo edulcorata della Resistenza, passo alla cosiddetta «storiografia di partito», cioè a studiosi che – durante la guerra fredda- hanno cercato di interpretare gli eventi accaduti tra il 1943 e il 1945. Tra questi uno dei punti di riferimento è Roberto Battaglia, che nel suo «Storia della Resistenza italiana» parla della Resistenza come «lotta di liberazione sociale» e di classe, in quanto la lotta armata sarebbe partita dagli scioperi del marzo del 1943. Lo studioso si sofferma da un lato sul ruolo svolto dalla brigata Garibaldi e dall’altro dal Partito Comunista Italiano all’interno del CLN. Battaglia riesce nel difficile tentativo di unire molti aspetti del periodo 43-45, ma il limite della sua ermeneutica sta nel fatto che risente del clima della guerra fredda e dunque del tentativo di legittimare il ruolo del PCI di cui era al tempo nuovamente segretario Palmiro Togliatti. L’interpretazione liberale, espressa in un lavoro collettivo del 1955 («Il secondo Risorgimento»), fa invece leva sul legame tra la Resistenza e il Risorgimento. In quest’ottica il fascismo – come insegnava Benedetto Croce – sarebbe stata solo una parentesi della storia nazionale e dunque la liberazione diventa una conquista dell’Italia pre-fascista per ottenere l’indipendenza dal nemico. C’è da sottolineare che la tesi crociana del fascismo come «parentesi» sarà fortemente avversata da De Felice che, attraverso una monumentale ricerca documentaria e di archivio, reinserirà il fascismo nella storia d’Italia. La tesi del Partito d’azione è invece condensata nel testo «Il problema politico della Nazione italiana» di Leo Valiani, che parla della Resistenza come «rivoluzione mancata», in quanto le spinte più radicali del movimento sarebbero state sacrificate dalle scelte volte al compromesso del partito comunista. A questo punto, faccio notare ai miei allievi come i punti di vista e di partito citati non abbiano, come quello di Guido Quazza («Resistenza e storia d’Italia», 1976) il merito di inserire il complesso fenomeno della Resistenza nell’arco cronologico che va dal 1919 al 1947, con il fine di evidenziarne gli elementi di continuità e discontinuità con la storia del nostro Paese. In ogni caso, il testo che offre una panoramica completa sulla Resistenza è «Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza» di Claudio Pavone, del 1991. Pavone ci offre la chiave interpretativa delle cosiddette “tre guerre”.” La Resistenza, secondo i suoi studi, è stata una guerra di liberazione contro il nemico occupante, civile (in quanto lotta armata tra fazioni dello stesso Paese) e di classe (considerati gli scioperi nelle fabbriche del marzo 1943).

D.: Una parte importante della memoria, dell’identità del nostro Paese nasce dalla Resistenza. Professore Pasquale Vitale può, in sintesi, delineare il processo di ricostruzione della nostra Resistenza attraverso l’uso delle fonti?

Il problema cruciale della ricostruzione della Resistenza è sicurante legato all’utilizzo delle fonti. Dopo il 1978 e quindi dopo il delitto Moro (periodo in cui si placano anche certe tensioni fra i partiti) si comprende che, per una più attenta ricostruzione della Resistenza, era necessario far riferimento alle fonti tedesche e orali, alle memorie, alle fotografie. Da questi nuovi documenti fiorirono nuovi studi sui soggetti dimenticati dalla storiografia più tradizionale come i prigionieri, le donne e i contadini. Per quanto riguarda le donne si registravano 35000 partigiane (operaie, casalinghe, studentesse, insegnanti, intellettuali). Le donne nascondevano gli uomini, sabotavano gli sfollamenti nazisti, proteggevano ebrei e alleati e fungevano da staffette, portando messaggi, alimenti e armi. Per loro partecipare alla Resistenza significò abbandonare la condizione di marginalità che avevano nella società. Indimenticabile, in questo senso, l’immagine di Anna Magnani (nel film «Roma città aperta» di Roberto Rossellini) che paga con la vita la sua ribellione alle ingiustizie dei nazisti. Su questo tema, consiglio agli studenti, un classico «L’Agnese va morire» di Renata Viganò: «una delle opere letterarie piú limpide e convincenti che siano uscite dall’esperienza storica e umana della Resistenza. Un documento prezioso per far capire che cosa è stata la Resistenza» (Sebastiano Vassalli).

Infine, un altro documento che indico ai miei studenti sono «Le lettere di condannati a morte della Resistenza italiana». Una lettura difficile, dura, che commuove. Spesso le lacrime bagnano gli occhi. Leggere, ascoltare le voci di un’altra Italia e «domandarsi se davvero non ci sia più bisogno di quella voce o [..] non si debba fare di tutto per tramandarla e mantenerla viva nella coscienza, come radice da cui attingere forza» (Gustavo Zagrebelsky):

Carissimi, mamma, papà, fratello sorella e compagni tutti,

mi trovo senz’altro a breve distanza dall’esecuzione. Mi sento però calmo e muoio sereno e con l’animo tranquillo. Contento di morire per la nostra causa: il comunismo e per la nostra cara e bella Italia.

Il sole risplenderà su noi “domani” perché TUTTI riconosceranno che nulla di male abbiamo fatto noi. Voi siate forti come lo sono io e non disperate. Voglio che voi siate fieri ed orgogliosi del vostro Albuni che sempre vi ha voluto bene.

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