La “Riforma Cartabia” ha introdotto diversi e distinti istituti che tendono alla “ricomposizione” delle liti e delle situazioni, alla “riappacificazione” tra reo e vittima, anche ambito penale. Un precetto che giunge dall’alto, da una complessa (ma affatto completa ed organica) riforma legislativa che andava elaborata e strutturata più attentamente. Il legislatore ha ritenuto maturo il tempo nel quale si poteva fare fronte a certe situazioni che hanno compromesso i rapporti individuali e collettivi con strumenti più o meno complessi (ed accettati) di “mediazione” tra le parti. La parte come “regina” del sistema procedimentale, processuale e sanzionatorio penale: una bella rivoluzione (o involuzione). Riteniamo che questa scelta abbia due sbocchi principali: a) la procedibilità a querela di reati anche molto gravi (si veda il sequestro di persona semplice ed altri non meno importanti); b) la possibilità di addivenire ad una “mediazione” dei diritti e degli interessi tra le parti. Una visione, mi si passi il termine forse dozzinale e “atecnico”, “privatistica del diritto penale e del processo penale”. Una visione affatto scontata di un ritorno sempre più marcato ad un “diritto privato penale” che ha i suoi “antenati” nel diritto romano pre-impero (fonti ciceroniane).
Troviamo che questa scelta (è una nostra opinione, sicuramente minoritaria) sia non solo molto sbagliata, ma del tutto fuorviante e, soprattutto, tesa a demolire il principio (essenziale) della azione penale che per sua natura è pubblica. Sappiamo di affermare concetti che ai più possono sembrare pesanti e gravi, ma il diavolo sta nelle piccole cose, e questa riforma non è nemmeno tanto “piccola cosa”. Si è fatta la scelta di mettere nelle mani delle parti private l’esercizio del diritto anche in caso di reati molto gravi e si è sviluppato un concetto di composizione dei conflitti che se può apparire meritevole cozza con i principi costituzionali. Meglio sarebbe stato – ma lo diciamo e scriviamo da anni (senza alcun risultato) – una importante e sostanziale riforma che mirasse ad una effettiva depenalizzazione dei reati minori con conseguente trasformazione di dette fattispecie in sanzioni amministrative (che significherebbe anche una entrata per lo Stato). E sarebbe, altresì, opportuno migliorare il meccanismo esecutivo e di riscossione di tali sanzioni amministrative magari attuando provvedimenti di sequestro preventivi a garanzia dell’erario o simili strumenti. Il reato è un fatto storico che è previsto dalla norma positiva e nella quale il comportamento fattuale è sussunto e lede beni giuridici costituzionali, collettivi ed individuali, ma sempre di valore costituzionale, quindi, pubblico.
Il reato è di per se un fatto che lede un bene costituzionalmente tutelato e garantito di rango superiore e pubblico. L’atteggiamento nuovo della Cartabia apre a metodologie negoziali (tra le parti) che, indubbiamente, fuoriescono dai canali normativi e concettuali classici. Tecnicamente, nasce da una esigenza di chiudere il flusso dei processi e, quindi, il carico dei processi; come contropartita i “piccioli” del PNRR. La figura negoziale è per ciò stesso un aspetto che ha origine dal sistema privatistico, mentre, invece, il Diritto Penale, per sua natura, afferisce al Diritto Pubblico (nozioni generali che non potevano sfuggire ai tecnici che hanno lavorato alla Riforma c.d. Cartabia). Insomma, aldilà di una disamina normativa che va fatta, ma che non è il nostro compito attuale, si deve osservare che sono stati introdotti, istituiti a natura negoziale che configgono con il concetto pubblicistico di lesione del bene giuridico che è proprio della collettività ed ha un assetto pubblicistico. Non si vuole criticare in modo aprioristico la riforma sotto il profilo ideologico, ma mi viene da pensare che dopo la Cartabia il diritto penale (e, di conseguenza, il processo) non sarà più lo stesso. Molti osservatori non hanno colto questa particolarità e non l’hanno colta (forse) perché concentrati, come sono (e siamo), sulla riforma legislativa. In verità, permettere una giustizia penale “negoziata” comporta una lesione dell’assioma pubblicistico di tutela di un bene collettivo che ha, ovviamente, riflessi individuali, ma caratteri collettivi e di tutela individuale e collettiva.
Non si vuole dire che sia sbagliato a priori, ma ci si interroga – crediamo in modo legittimo e coerente con il sistema penale – sia sulla opportunità sia sulla portata di questa innovazione concettuale ed ideologica. Si vuole un diritto penale più “privatistico”, dove l’intervento statale sia minimo? Ma l’intervento dello Stato che ruolo ha? Il processare è ricostruire e nella ricostruzione vi può essere una attribuzione di responsabilità e, quindi, un riportare la società ad una riappacificazione con l’evento delittuoso ed il reo colpevole nei binari dell’art. 27 Cost. Riteniamo che l’assenza di responsabilità possa essere così dirimente e così favorevole? La non negoziabilità del reato (in alcuni casi) è il segno di una rimasta capacità dell’ordinamento di rispondere alle necessità di prevenzione, tutela e risocializzazione nella collettività. Crediamo che un “negozio” sia meglio di un accertamento della verità processuale? Forse è più celere, ma determina una sostanziale insoddisfazione in entrambe le parti (salvo per reati minori per i quali già c’era). Vi è spazio per tutto ciò? Riteniamo di si, ma un approccio del genere va studiato e modellato con tutto il sistema e non introdotto dall’alto sic et sempliciter.
Ma la questione di fondo è: in tali istituti vi è ancora il diritto penale come baluardo normativo ai beni giuridici costituzionali che si ritiene di tutelare? Vi è per i reati considerati più gravi, ma il venire meno per gli altri non proprio di lieve entità (come possiamo leggere nella riforma) determina, con chiarezza, una possibile strada che riporti il diritto penale nell’alveo della sfera del singolo e ciò, a nostro parere, non deve accadere, proprio per la “pace sociale”. Il reato violando il bene giuridico viola diritti costituzionali e pubblici, individuali e collettivi. Ecco perché, in verità, una corposa e meditata depenalizzazione non avrebbe creato questo “terremoto ideologico e sistematico”, ma avrebbe fattivamente e concretamente limitato l’attività pubblica ai reati che vengono ritenuti più gravi portando il reato in ambito sanzionatorio amministrativo con una effettiva deflazione del carico dei procedimenti. La depenalizzazione non sarebbe stata un vulnus perché non avrebbe creato il disequilibrio concettuale ed ideologico cui abbiamo tentato di accennare. Una depenalizzazione avrebbe determinato una limitazione dell’intervento penale a casi più limitati, ma più gravi. Già il Beccaria, abbastanza letto, ci ricorda che il diritto penale deve essere costituito da poche leggi e chiare. La chiarezza è essenza della tipizzazione della norma e della tassatività della stessa che è garanzia assoluta per il cittadino.
Il resto è qualcosa che non riconosciamo come utile e crea (o può creare) forti crisi del sistema; può rappresentare un vulnus, un punto debole.