“Chella, mamma, sta cu ‘o penziero che ‘st’ammore mme perdarrá. Ll’hanno ditto dint’ô quartiere ch’è cchiù ‘nfama d’ ‘a ‘nfamitá”, così cantava Nina de Charny e, ogni volta che saliva sul palcoscenico, un lunghissimo e fortissimo applauso partiva da tutto il teatro. La canzona, scritta da Giuseppe Capolongo (1877 – 1928) e Roberto Murolo (1912 – 2003), si chiama “Core ‘e mamma” ed era il suo cavallo di battaglia. Ma chi era Nina de Charny? Era una sciantosa e, per conoscere la sua storia piena di mistero, bisogna andare indietro nel tempo, bisogna andare a Napoli nella Belle Époque, nel colorato mondo delle sciantose, ma prima vi parlerò di due figure che per noi sono molto più familiari e che allo stesso tempo sono le antesignane delle sciantose: la showgirl e la soubrette. Se pensiamo a una showgirl, ci viene subito in mente una donna che sa presentare dei programmi televisivi, che sa cantare, ballare, recitare, intervistare, insomma che sa condurre un intero spettacolo in autonomia. Raffaella Carrà, per esempio, è una delle più famose showgirl internazionali del Novecento. Tuttavia non si può parlare di showgirl senza parlare di una figura analoga, cioè quella di soubrette che nell’800 entrò nell’Opéra Comique come affascinante e malizioso personaggio femminile. A sua volta la soubrette seguì un’altra figura importante sorta prima, quest’ultima è la cosiddetta sciantosa di Napoli. Il termine stesso “sciantosa”, usato per la prima volta proprio nella città partenopea, è una italianizzazione del termine francese “chanteuse”, vale a dire cantante che intrattiene il pubblico del cafè-chantante con piccoli spettacoli, balletti e canzoni popolari soprattutto napoletane. Va subito detto che a Napoli la sciantosa è qualcosa di più di una semplice donna di spettacolo, essa è la rappresentazione del concetto stesso di seduzione. È, infatti, una femme fatale dall’atteggiamento superbo, ma molto desiderata e osannata dai maschi, lusingatrice, provocatrice con i suoi finti accenti stranieri – su tutti il francese – molto vanitosa, sfrontata, affascinante e maliziosa. La sciantosa, che usa sempre un nome d’arte esotico alquanto eccentrico, non ha gusto nel vestire, il suo obiettivo è soprattutto apparire, quindi indossa abiti succinti, scollati, velati, arricchiti con parecchi gioielli costosissimi e luminosissimi, le sue culotte vengono spesso e volentieri mostrate al pubblico acclamante rischiando, però, di cadere nella volgarità. L’abbigliamento delle sciantose prevedeva generalmente un corpetto molto stretto, che poteva essere rosso, nero o di altri colori, e una serie di sottane corte; delle calze a rete; dei sensualissimi guanti di seta che coprivano anche tutto il braccio; delle scarpe col tacco; sulla testa un cappello particolare, delle piume o dei fiori molto grandi e colorati. Esse, così abbigliate, facevano ‘a mossa, vale a dire un provocante movimento rotatorio del bacino e del sedere ritmato da tamburo e grancassa. Spesso, proprio nell’attimo esatto della mossa, la sciantosa si alzava spiritosamente la veste per mostrare a tutti il suo intimo.
Una vera sciantosa, inoltre, aveva a suo seguito dei claquer – dal francese “sbattere” – costituiti, sotto pagamento, da persone che applaudivano fragorosamente alla fine delle loro interpretazioni affinché il pubblico presente si facesse prendere dall’euforia. Spesso e volentieri la sciantosa irrompeva sulle tavole del teatro interpretando ‘A frangesa – canzone del musicista pugliese Mario Pasquale Costa (1858-1933) che parla del divismo di queste donne – ma tante altre saranno le canzoni di successo portate in scena dalle sciantose, tra queste Ninì Tirabusciò (1911) è un esempio importante perché racconta esattamente l’epoca in questione: “Ho scelto un nome eccentrico: Niní Tirabusciò. Addio mia bella Napoli, mai più ti rivedrò! Ne cunosco tante e tante ca nun só’ cchiù meglio ‘e me e cu ‘e llire e cu ‘e brillante só’ turnate da ‘e tturné. ‘A furtuna, s’è capito, ‘ncopp ”e ttavule se fa! Aíz ”a vesta, smuóvete! E’ ll’epoca ch”o vvò’”. Un’altra canzone famosa nel repertorio delle sciantose è certamente Reginella scritta da Libero Bovio nel 1917: “Te si’ fatta na vesta scullata, nu cappiello cu ‘e nastre e cu ‘e rrose… stive ‘mmiez’a tre o quatto sciantose e parlave francese…è accussí?”. Detto questo possiamo spostare la nostra attenzione sulla storia di Nina de Charny. Nata a Napoli alla fine dell’Ottocento – il 19 aprile 1889 – precisamente al vico Giardinetto a Toledo, Giovanna Cardini ‘e n’copp’ ‘e Quartieri è stata una cantante fantasista, una sciantosa che ha lasciato un segno importante nelle cronache nere napoletane di quel tempo e dello spettacolo italiano e internazionale. La storia di questa napoletana della Belle Époque è molto particolare, avvolgente e curiosa perché, detto in altri termini, la sua esistenza è praticamente caratterizzata da un fitto mistero che a tutt’oggi resta tale. Verso i suoi 18 anni, col nome d’arte di Nina De Charny, la Cardini debuttò sulle tavole del teatro Mercadante di Napoli (XVIII sec.) dando una sua interpretazione delle canzoni di Rodolfo Falvo (1873-1937), famosissimo musicista napoletano conosciuto col soprannome di Mascagnino per la sua somiglianza al compositore livornese Pietro Mascagni. Il fantastico repertorio della De Charny, che vantava di canzoni classiche napoletane e di romanze, venne spesso portato anche nel celeberrimo Salone Margherita della medesima città partenopea. Il pubblico la amava così tanto che per lei il successo arrivò fin da subito, infatti la De Charny si trovò a cantare nei teatri di mezzo mondo dove veniva presentata come “la famosa sirena napoletana”: a Milano, a New York (da lei chiamata Nevaiorche), a Parigi, a Londra. Il pubblico di tutti i teatri italiani ed esteri, in cui la bella Nina si esibiva, le chiedeva canzoni come “Marechiare”; “‘A marina ‘e Tripoli”; “Pupatella”; “Carmela bella”; “Carufanella”; “Gina mia”; “O marenare”; “Piererotta”; “Sotto e cancelle” e per finire “Nu fritto misto” vale a dire una mescolanza di ritornelli di canzoni classiche napoletane conosciute in tutto il pianeta. Tuttavia, quando sembra che tutto stia andando per il verso giusto, all’improvviso succede qualcosa che ancora oggi nessuno sa spiegarsi. Una caldissima sera del mese di luglio del 1913 Nina de Charny cantò nel Teatro Luciano di Salerno (oggi non più esistente) e alla sua straordinaria e acclamata esibizione seguì, come di consueto nei suoi tour, un applauso molto caloroso. Tutto bene se non fosse che, una volta dietro le quinte del teatro, della De Charny non si seppe più niente. Scomparsa nel nulla a soli 24 anni.
Tra le plausibili spiegazioni figurano il suicidio (il corpo non è mai stato ritrovato), l’omicidio e una fuga amorosa verso il Brasile. Non si capisce bene quello che può essere accaduto non appena la sciantosa finì la sua interpretazione, fatto sta che il caso venne chiuso senza una accettabile soluzione.
Ancora oggi la storia di questa cantante napoletana è intrisa di mistero, il fatto certo è che, secondo alcune fonti, tra il 1915 e il 1921, negli Stati Uniti d’America compaiono alcuni dischi 78 giri che recano il suo nome sull’etichetta per la casa discografica Victor e, per di più, pare che la voce sui nastri incisa sia effettivamente la sua. Se facciamo affidamento a questo, Nina de Charny emigrò in America e continuò ad andare in scena dilettando il suo affezionato pubblico di maschi. Pertanto Nina de Charny non avrà mai una tomba; sarà una sciantosa per sempre e magari starà ancora cantando così: “E’ chesta ‘a vera tattica ‘e na sciantosa ‘e mo. Oh! Oh! Oh! Oh! Oh! Oh! Addio mia bella Napoli, mai più ti rivedró! Oh! Oh! Oh!”.