Un Giovedì Santo, durante gli ultimi anni del secolo XVIII in una fattoria cubana dedita al taglio della canna e alla produzione dello zucchero, un ricco conte avanero, molto religioso, riunisce dodici schiavi, mette in scena la cerimonia cattolica della lavanda dei piedi e quindi li invita a cena nel suo palazzo. Durante il pasto conversa con gli schiavi e tenta di giustificare il potere dispotico che esercita su di loro con i principi di umiltà e rassegnazione della religione cattolica.
Gli schiavi sono convinti della buona fede del conte che compie atti di magnanimità, liberando un vecchio e decidendo che nella giornata di Venerdì Santo non si dovrà lavorare. Nonostante tutto, il giorno dopo il perfido mayoral li vorrebbe obbligare ad andare nei campi con la consueta violenza. Per questo scoppia la rivolta degli schiavi che uccidono il mayoral e persino sua moglie, danno fuoco alla fattoria e fuggono verso le montagne.
Il conte reagisce proteggendo i suoi veri interessi, ordina una tragica repressione trucidando tutti i partecipanti alla cena e impalando le loro teste attorno a una croce dove costruirà una chiesa. Soltanto uno schiavo riesce a fuggire, il più ribelle e determinato, il solo che non si era mai fidato del conte. Per lui si apre un futuro da cimarron, uno dei tanti schiavi neri che per sfuggire alla cattura sono vissuti tra le montagne cubane, nascosti nelle caverne, come uomini primitivi.
La pellicola si basa su fatti reali ed è strutturata per capitoli corrispondenti ai giorni festivi della Settimana Santa: Giovedì Santo, Venerdì Santo, Sabato Santo e Pasqua di Resurrezione. La base del soggetto è il racconto El ingenio dello storico cubano Manuel Moreno Fraginal. La ricostruzione storica della Cuba del XVIII secolo è perfetta, così come è ben descritto il rapporto tra schiavi neri e padroni, ma soprattutto i conflitti con i violenti mayorales. Vediamo il taglio della canna da zucchero e le fasi per ottenere il prezioso alimento che prima diventa guarrapo e quindi si cristallizza in zucchero bianco e nero.
Gutiérrez Alea è interessato a mostrare la vita dei neri nel periodo coloniale, trattati come bestie senz’anima, giudicati carne da macello, buoni per tagliare la canna perché resistenti alla fatica. Il lavoro da aguzzino era svolto dai mayorales che avevano il contatto diretto con gli schiavi e dovevano farli lavorare, ma il padrone condivideva in silenzio tutti i metodi violenti. Il regista mostra il ruolo della chiesa, impersonata da un prete che vorrebbe intercedere a favore di umili e diseredati ma non ha potere e finisce per soggiacere alla volontà del signore.
La messa in scena che il conte fa durante la Settimana Santa serve solo a dare una giustificazione formale e religiosa alle angherie che gli schiavi subiscono, ma – come osserva uno schiavo più intelligente e indomito – sono soltanto menzogne. La parte più lunga e teatrale del film consiste nella ricostruzione dell’ultima cena di Cristo dove il conte siede al centro di una tavola imbandita con dodici schiavi prescelti. Il conte tenta di spiegare le basi della religione cattolica ma i neri non comprendono il senso di certe affermazioni, si limitano a mangiare con le mani e ad abbuffarsi. “Il nero è rozzo e scappa sul monte.
Il mayoral deve essere altrettanto rozzo per far capire al nero come ci si comporta”, spiega il conte. Sebastian – uno schiavo catturato dopo la fuga al quale è stato mozzato un orecchio – è l’unico che si ribella dopo le parole del conte e osa sputargli in faccia. Il conte perdona, rievoca la storia di Cristo, il tradimento di Giuda, la parabola di San Francesco e Frà Leone, spezza il pane e versa il vino. Alla fine sono quasi tutti ubriachi e al conte resta tempo per teorizzare la vera felicità che non consiste nell’essere liberi, ma nella conoscenza e nell’amore per Cristo. La sua teoria da padrone è che il nero è nato per tagliare la canna, sopporta bene le frustate e la fatica fisica.
Sebastian approfitta di un momento in cui il conte si addormenta per indossare una testa di maiale e spiegare che i padroni bianchi raccontano solo menzogne. Altri schiavi sono convinti della buona fede del conte e lo reputano un buon padrone, anche perché non era mai accaduto che dei neri sedessero alla mensa di un bianco. Il Venerdì Santo esplode la tragedia perché il perfido mayoral vorrebbe far lavorare gli schiavi nonostante le parole del conte. Il padrone se ne lava le mani, non ascolta il prete che pare preoccupato per la situazione, sostiene che sono problemi del mayoral e a lui non interessano.
Gli schiavi si ribellano, mettono alla gogna il loro aguzzino, catturano la moglie e la uccidono per errore quando vorrebbe scappare, infine danno fuoco alla fattoria e si danno alla macchia. Questa è la parte più spettacolare del film, quella davvero cinematografica dopo una lunga serie di sequenze teatrali girate in interni. Gutiérrez Alea ricostruisce una rivolta di schiavi e la fuga verso le montagne, ma anche la caccia ai fuggiaschi da parte dei soldati del padrone che usano cani addestrati e giustiziano senza pietà.
La caccia ai neri avviene durante il Sabato Santo, festeggiato tra uccisioni, suicidi e teste impalate delle povere vittime. Sebastian riesce a fuggire e si dà alla macchia grazie all’aiuto di un tecnico dello zuccherificio che da tempo sosteneva che non si dovevano maltrattare i neri. La Domenica di Resurrezione mostra il conte in primo piano mentre recita un folle discorso sul trionfo del cristiano contro le bestie selvagge. Undici teste impalate fanno da cornice a una croce gigantesca, manca solo quella di Sebastian che è in fuga verso le montagne e rappresenta la speranza di un futuro migliore.
Regia: Tomás Gutiérrez Alea. Duarata: 120’. Produzione e Distribuzione: ICAIC (Cuba). Produzione: Santiago Llapur, Camilo Vives. Soggetto e Sceneggiatura: Tomás González Pérez, María Eugenia Haya, Tomás Gutiérrez Alea. Fotografia: Mario García Joya. Montaggio: Nelson Rodríguez. Musica: Leo Brouwer. Suono: Germinal Hernández. Direzione artistica: Carlos Arditti. Interpreti: Nelson Villagra, Silvano Rey, Luis Alberto García, José Antonio Rodríguez, Mario Balmaseda, Samuel Claxton, Idelfonso Tamayo, Tito Junco. Premi: Miglior lungometraggio al Festival de Cine Iberoamericano de Huelva (1976); Premio della Stampa Cinematografica Cubana (1977); Miglior Pellicola al Chicago International Film Festival (1977); Premio del Pubblico e Miglior Pellicola alla Mostra Internazionale del Cinema di San Paolo (1978).