“I due giorni più importanti della vita sono il giorno in cui sei nato e il giorno in cui scopri il perché”. Per Mark Twain c’è un giorno della nostra vita in cui scopriamo perché siamo nati: quale è il vero motivo, o forse quale è la nostra missione. Ci sono momenti in cui la vita ci porta effettivamente a chiedere a noi stessi quale è il valore ed il peso che diamo alla nostra esistenza ed alle persone che ci sono più vicine. Ho avuto il privilegio di conoscere due grandi menti del nostro tempo: il Maestro Franco Battiato, artista straordinario a tutto tondo e il professor Zygmunt Bauman, il sociologo, sicuramente uno dei più grandi pensatori degli ultimi due secoli. Provo a fare un ragionamento insieme a loro per cercare di comprendere quanto in realtà la nostra vita è un tempo preso in prestito o la morte non è fine, proprio per dirla con questi due grandi personaggi. “Ogni evento, tranne la morte, ha una promessa scritta in inchiostro indelebile, che per quanto stampata piccola assicura: la storia continua”.
Ha confessato nel 2012 il professor Bauman a Riccardo Staglianò, in un’intervista pubblicata dal Venerdì di Repubblica, aggiungendo poi: “è la consapevolezza della fine che infonde ogni momento che la precede di un meraviglioso significato. Non tanto perché ci dà il significato ultimo della vita, quanto perché ci incita e ci costringe a riempire le nostre vite con significati. È quella consapevolezza che ci spinge a cercare nuovi inizi. La coscienza di vivere in un tempo preso a prestito che ci suggerisce di usarne ogni boccone in maniera saggia. Insomma, la vita è piena delle cose – non una di più, né una di meno – che la morte è riuscita a piantarci dentro”.
Del resto anche Franco Battiato ci ha lasciato queste parole come testamento nel libro “Lo Stadio Intermedio”, scritto con Gianluca Magi sulla morte e sulla paura di morire: “Il passaggio dalla vita a quella che chiamiamo morte è l’argomento rimosso dei nostri tempi. Ma in realtà la morte non è fine. Non è inizio, ma passaggio”.
Pensieri che quando giungi nel mezzo del cammin di nostra vita, come ci ha insegnato il sommo poeta Dante Alighieri, diventano molto presenti quasi ossessivi. Sia di giorno che di notte perché come ammoniva Cesare Pavere: “crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire”.
Tornando al professor Bauman quando il giornalista di Repubblica gli ricorda che Cicerone diceva: “Filosofare è imparare a morire”, obietta: “Io direi, al contrario, che a causa della presenza costante dell’idea della morte nella nostra vita, impariamo a riflettere sul suo significato. Schopenhauer ci ha insegnato che senza morte non ci sarebbe filosofia. Io dico che non ci sarebbe neanche la cultura, quella trasgressione tipicamente umana alla natura, ovvero il sedimento del tentativo senza sosta di rendere la vita vivibile nonostante la consapevolezza della mortalità. È proprio la caratteristica non negoziabile della brevità del tempo a nostra disposizione, della probabilità di lasciare progetti incompiuti e cose ancora da fare, che spinge gli umani all’azione e fa volare l’immaginazione. Detto altrimenti, la cultura, che ci fornisce infiniti spunti per pensare ad altro, è il tentativo di gettare un ponte tra le due sponde, vita mortale e immortalità, e ci spinge a lasciare una traccia della nostra seppure breve visita”.
E poi c’è un altro grande tema su cui ci interroghiamo spesso: cosa c’è dopo? Esistono davvero Paradiso, Purgatorio e Inferno? Davvero incontreremo chi abbiamo conosciuto in vita? Oppure non ci sarà nulla…proprio nulla e tutto finisce quando la nostra vita terrena si interrompe. E poi serve saperlo?
Roberto Gervaso, spesso autoironico e geniale, ha sussurrato: “L’aldilà preferisco non immaginarlo. Per non guastarmi la sorpresa”. Forse ha ragione.