Sacha Naspini non finisce mai di sorprendere, passa da un affresco potente e complesso, un romanzo corale come Le case del malcontento, a una telefonata tra due personaggi che racconta la vita come Nives, per toccare i sentieri della follia e del disagio, i temi dello sdoppiamento di personalità, in un romanzo insolito come La voce di Robert Wright. Una pirandelliana commedia di maschere, per cui il protagonista – che era stato uno e centomila – si ritrova a interpretare la parte di nessuno, a perdere la sua identità, lui che era abituato a calarsi nei personaggi con immedesimazione totale, secondo un personale e rigorso metodo Stanislavskij. Un novello Gregor Samsa, un giorno si risveglia non scarafaggio ma nei panni di un morto, che forse è pure peggio, perché costretto a scomparire, a far perdere le sue tracce, a vivere in casa propria come uno che si nasconde alla vista dei suoi cari per non far capire che esiste. La voce di Robert Wright è una lunga indagine sui misteri dell’animo umano, sulla follia e i luoghi che la abitano, sulla fatica che un uomo è costretto a fare per trovare un ruolo nella vita, cercando una ribalta qualsiasi, perché qualcuno si accorga di lui, persino restando nell’ombra, come nel caso di un doppiatore che vive di fama riflessa. Il protagonista del romanzo è un uomo che per ventisette anni conosce un solo nord: Robert Wright, un giorno quel punto di riferimento è saltato, la bussola è impazzita, e lui si è perso, in tutti i sensi. Romanzo psicologico è la definizione migliore che si può dare per un racconto che contiene la tensione narrativa di una storia dell’orrore e il taglio minimalista che ti accompagna nel vivere quotidiano. Non lasciatevi spaventare dalla mole, lo stile di Naspini è così coinvolgente che il romanzo finisce troppo presto, proprio quando Carlo Serafini era diventato il tuo miglior amico, il compagno inseparabile, pur con tutte le sue stranezze, delle tue serate.
Da quasi trent’anni sei il doppiatore ufficiale di uno degli attori più famosi e strapagati di Hollywood. Per il pubblico non hai neanche un nome, sei “la voce di Robert Wright”. Consacrare l’esistenza a un portento del cinema mondiale ha avuto il suo prezzo: rimanere nell’ombra. Sei comunque una star, ma dei titoli di coda. Quaranta film e tanta abnegazione ti hanno consentito di avere soldi, riconoscimenti, una bella casa nel centro di Roma. Una famiglia. Un giorno arriva la notizia: Robert si è suicidato nella sua villa in California. Ora sei la voce di un morto. Dopo aver fatto parlare innumerevoli personaggi te ne resta solo uno da interpretare: te stesso.
Ancora un romanzo diverso dagli altri. Non sarebbe più semplice insistere su una linea di successo? Penso a Le Case del malcontento…
La “vena territoriale” c’è e ci sarà sempre; di tanto in tanto mi chiama e torno là, a cercare quelle occasioni, quella voce. Per esempio Nives, dell’anno scorso: un romanzo che abita appunto nella zona delle Case del malcontento, dei Cariolanti, e del primissimo, L’ingrato. Impossibile che mi scrolli quella roba di dosso. Nel frattempo ha preso corpo la linea contemporanea, per così dire – velocità di un altro tipo. E un atteggiamento del tutto diverso rispetto al portato silenzioso, che fa davvero i romanzi. Per esempio Ossigeno, I sassi, Le nostre assenze, Cento per cento. E adesso La voce di Robert Wright. Inutile dirlo: ogni volta che stacco un volo imprevisto c’è un’agonia – ma bella. Sono un grande fan di quegli autori e di quelle autrici che non danno al pubblico ciò che si aspetta. Questo prevede una scommessa, a vari livelli. Forse è anche più onesto. Non si tratta di esibizioni: tentativi, gesti nuovi per provare a toccare le corde nascoste dell’esperienza umana.
Nel romanzo si parla di un doppiatore che per quasi trent’anni ha dato la voce a un portento di Hollywood: Robert Wright. Che d’un tratto muore. Ti sei ispirato a qualcuno?
Mentre buttavo giù questa storia pensavo a Robin Williams. Uno di quegli attori che probabilmente ha fatto breccia anche nei cuori dei più cinici. Non è un caso se il protagonista del romanzo si chiama Carlo Serafini: un piccolo tributo all’immenso talento di Carlo Valli (che ovviamente non c’entra niente con questa vicenda).
Qual è il tema dominante del libro?
L’identità. Vista dalla prospettiva di un uomo che da un certo punto della sua vita in poi si è adagiato, ha smesso di cercarsi. Adesso è sulla soglia dei settanta. La morte improvvisa dell’attore cui deve tutto lo coglie impreparato. Come prima reazione smette di parlare.