Ogni anno, in occasione dell’approvazione della legge di Bilancio, si sentono accese dispute su quali voci inserire nella manovra e quali, invece, tagliare (per risparmiare). Raramente, però, si citano due “capitoli” del bilancio. Il primo riguarda il costo del debito pubblico. In poche parole quanto costa allo Stato farsi prestare soldi (dalle banche e dai cittadini) per coprire queste spese. C’è, però, un altro capitolo, forse ancora più importante (almeno per quanto riguarda gli “zeri”), della quale non si parla mai: i crediti.
Secondo una recente dichiarazione del direttore dell’Agenzia delle Entrate, Enrico Maria Ruffini, il “magazzino” dei crediti non riscossi ammonterebbe a oltre 1.100 miliardi di euro. Un “magazzino” unico al mondo. “Nessuno tiene un magazzino di 22 anni di crediti non riscossi” ha dichiarato Ruffini. Una quantità di crediti che aumenta anno dopo anno. Ad aprile 2017, lo stesso Ruffini, allora amministratore delegato di Equitalia, in una audizione alla sesta Commissione Finanze della Camera dei Deputati, affermò “A oggi sono circa 21 milioni i contribuenti che risultano avere debiti a vario titolo con gli enti creditori. (…) Il carico contabile residuo, affidato dai diversi enti creditori nel periodo primo gennaio 2000/31 dicembre 2016, ammonta a 817 miliardi di euro”. Qualche anno dopo, sempre il direttore Ruffini intervistato a Telefisco dichiarò che “Al 31 dicembre 2020 il magazzino complessivo dei crediti affidati dagli enti creditori all’Agenzia delle Entrate-Riscossione dal 2000 al 2020 ormai ha raggiunto circa mille miliardi di crediti non riscossi, accumulati nel corso di 20 anni, il che è un’anomalia e sono riferiti in gran parte a soggetti che non sono in grado di sostenere la riscossione”.
Secondo Ruffini, ben 817 milioni dei crediti avanzati dallo Stato è difficilmente recuperabile. È questo il secondo punto fondamentale: buona parte dei crediti sono “inesigibili”, vale a dire lo Stato (e le amministrazioni pubbliche) nom sono riuscite a far pagare le somme dovute. La differenza (spaventosa) tra i crediti da riscuotere e la riscossione reale, secondo Ruffini, sarebbe dovuta alla mancanza di personale adeguato a gestire un simile magazzino. Per Ruffini, “8.000 funzionari servirebbero per gestire un magazzino di tre anni. La disciplina è comune in qualunque paese occidentale, un magazzino non può essere seriamente maggiore di un periodo di tre anni”.
Il punto è che, in questo periodo, si sono accumulati centinaia di miliardi di crediti per la maggior parte non esigibili. Il problema, ha fatto notare la Corte dei Conti in un Rendiconto annuale, non è la carenza di personale dato che questo debito è concentrato su circa il 20% delle situazioni debitorie. Basterebbe selezionare gli obiettivi e focalizzare gli sforzi per ottenere risultati migliori. A mancare, quindi, non sarebbe tanto il personale, ma piuttosto una strategia di recupero dei crediti adeguata.
Il primo problema è il tempo. La prima comunicazione di irregolarità dal fisco al contribuente arriva in media dopo tre anni. Per chi non paga, si procede all’iscrizione a ruolo. Per la notifica della cartella passa quasi un altro anno. Un lasso di tempo durante il quale molte aziende chiudono definitivamente. Diventa quindi impossibile, per la pubblica amministrazione, riscuotere i crediti. Dalle aziende così come dai semplici cittadini morosi. Ecco quindi che inizia la spasmodica ricerca dei beni da aggredire. Qui sorge un altro problema: non tutto è pignorabile (non lo sono l’abitazione principale, le automobili non intestate o in leasing e molti altri beni. Anche sulle pensioni spesso si può fare poco: per trattenere una parte dello stipendio si deve ricorrere al sostituto d’imposta e prelevare, al più, un quinto della pensione). I soggetti “attaccabili”, vale a dire quelli che hanno un grosso patrimonio e molte fonti reddituali sui quali il fisco si può avanzare pretese, sono in realtà pochi.
Anche in questo caso le soluzioni non mancano. Una di queste potrebbe essere il baratto amministrativo che prevede che un cittadino può pagare le tasse e, in generale, i debiti verso le amministrazioni locali attraverso il proprio lavoro. Il baratto sarebbe ammissibile anche per debiti di natura extra tributaria, connessi con l’erogazione di servizi pubblici, come ad esempio il pagamento del canone per l’acqua. Il baratto amministrativo può riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze o strade, ovvero la loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere, interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di interesse generale di aree e beni immobili inutilizzati.
Anche in questo caso non mancano i “ma”. Non sono pochi i limiti all’uso di questo modo di riscuotere i debiti. Il primo è che il baratto amministrativo non può essere imposto, ma solo “offerto” al debitore quale alternativa al pagamento del debito che ha maturato. Il soggetto debitore deve aderire volontariamente. In altre parole, non si può costringere un cittadino, per quanto sia in debito col Comune, a prestare un lavoro di utilità sociale. Il secondo problema è che, come confermato dalla Corte dei Conti, il baratto amministrativo non può applicarsi ai debiti tributari pregressi (questi debiti sono stati già iscritti nei residui attivi dell’ente e, come tali, hanno originato impegni in uscita). E ancora. In genere, i Comuni accettano il baratto amministrativo solamente se la proposta giunge da chi ha scarse disponibilità economiche, con un Isee inferiore a una determinata soglia. Ad esempio, il Comune di Milano ha stabilito che può accedere al baratto solamente chi ha un Isee inferiore ai 21 mila euro e sempre che dimostri che l’impossibilità di pagare è legata alla perdita o alla riduzione della capacità reddituale del nucleo familiare a causa di licenziamento, cassa integrazione, mancato rinnovo del contratto, cessazione di attività libero professionale o problemi di salute.
Tutto questo fa sì che il numero di persone che potrebbe “volontariamente “decidere di pagare il proprio debito fornendo servizi al Comune è in realtà davvero ridotto. Potrebbe essere questo il motivo principale per cui i Comuni che ricorrono a questo strumento sono sempre meno. A Petralia Soprana, piccolo comune delle Madonie, nel Palermitano, l’amministrazione comunale ha deciso di ricorrere al baratto amministrativo: i cittadini potranno scambiare con una propria prestazione di utilità sociale il mancato pagamento di tributi non pagati. La delibera è stata approvata all’unanimità dal Consiglio comunale. Secondo il Sindaco si tratta di uno strumento molto importante che va nella direzione dell’inclusione sociale e del coinvolgimento attivo dei cittadini alla vita del Comune. Potranno aderire, ma sempre in forma volontaria, i contribuenti e le associazioni per compensare i debiti maturati al 31 dicembre dell’anno precedente alla presentazione della domanda, di entità non inferiore a 600 euro per nucleo familiare, iscritti a ruolo e non ancora regolarizzati. Dalla Sicilia alla Lombardia, dal Lazio al Veneto i Comuni che (forse anche per disperazione) hanno deciso di proporre questo sistema non sono molti, però.
Eppure basterebbe apportare poche modifiche per rendere efficace e più utilizzabile il baratto amministrativo. E consentire alla montagna di crediti della pubblica amministrazione di non essere più inesigibili e continuare a crescere in modo vergognoso.