Questo racconto presentano molte citazioni dirette e indirette tratte dall’opera di Guillermo Cabrera Infante (ho appena finito di tradurre per Minimum Fax il romanzo inedito La ninfa incostante) e in particolar modo da L’Avana per un infante defunto, edito in Italia da Garzanti (fuori catalogo).
Aveva piovuto quel pomeriggio, uno di quei piovaschi simili all’amore: intensi, repentini e fugaci, che una volta avevano trasformato Lorca in spettatore dell’Avana. La notte aveva la trasparenza, la freschezza e il profumo della notte avanera dopo la pioggia. Suppongo che tutte le notti tropicali siano così, però per me sono rimaste la notte avanera. La notte avanera secondo Cabrera Infante, la notte di uno scrittore esiliato che ricorda, la notte di uno scrittore che non avrebbe mai voluto abbandonare L’Avana, la notte di chi afferma con forza Io non vivo a Cuba. Vivo all’Avana. Io non lascerò mai L’Avana. L’Avana non è solo il mio fine e il mio principio, ma anche il mio regno di mezzo. Cabrera Infante muore sotto il plumbeo cielo di Londra, avvolto da una nebbia nordica che non ha niente dell’azzurro ottobre avanero. Lo deve a una rivoluzione trasformata in dittatura, a un regime manicheo che separa buoni e cattivi. Lo scrittore vive nella fredda Europa del Nord e vagheggia nel ricordo la sua Avana. Rammenta il Torreón de San Lázaro e il Malecón miracoloso, meraviglia del mare e del muro, sogna l’aria dolce di settembre che si avvia a diventare ottobre e a raggiungere i giorni della lira, quando non ci sono uragani e il cielo diventa curvo, alto e di un azzurro intenso, senza nubi e fa appena caldo, e L’Avana bruciante di settembre viene addolcita dalla corrente del Golfo. Infante giunge all’Avana da un piccolo paese di oriente, provinciale catapultato in città, esplora il Malecón con occhi assorti che si spingono dentro l’oceano, ama l’autunno avanero, la sua dolcezza tropicale, percorrendo i due lati del lungomare, quello che si affaccia sul mare e quello che apre le porte alla città delle colonne. I pomeriggi di ottobre sono tutti dorati, se il cielo è nuvoloso sembra limpido, se non ci sono uragani si sta bene, fa meno caldo e la pioggia resta solo un vago ricordo di aprile. Per lui L’Avana è soprattutto ottobre, la stagione più bella, quella che non fa sudare e non serve tenere il fazzoletto a portata di mano. La sua città ottobrina brulica vita sotto un cielo rannuvolato con grandi nuvoloni scuri concentrati sul mare che perde il suo eterno azzurro interrato dal solco violaceo della corrente del Golfo. E lui ama la luce del giorno, vive l’azzurra intensità del mattino e del primo pomeriggio, diffida della luce del crepuscolo, perché non c’è niente di più illusorio in questa città di colonne, emozioni perdute nel mare mentre la brezza soffia da lontano. Ama il sole, quel sole intenso dell’Avana, quel sole che ti penetra a fondo con una serie di terribili stilettate di fuoco e ti costringe a sedere, quel sole che ti sconfigge sempre e invita a prendere la vita con lentezza, a non farti trasportare da un ingranaggio che può stritolarti. All’Avana non c’è mai qualcosa di urgente da fare, solo lasciarsi accarezzare dal sole del mattino che brucia come il fuoco e a mezzogiorno si trasforma in un lanciafiamme verticale. Cabrera Infante si trova a Piccadilly Circus e pensa all’Avana, ai tramonti sul Malecón che si colorano di rosso intenso, che arrivano improvvisi e ti penetrano la vista e il cuore, che si affiancano galeotti agli innamorati accanto al muro. La sua mente percorre La Rampa, quel tratto dell’Avana dove finisce il Vedado e comincia Infanta, corre giù per San Lázaro, buia strada illuminata soltanto dagli occhi di una mulatta che agita fianchi possenti o dal sorriso di una creola che passeggia maliziosa. E da San Lázaro è un volo rapido di gabbiano raggiungere Parque Maceo per scendere lungo tutto il Malecón fino a Prado e proseguire verso Neptuno. Lo scrittore ricorda Obispo fiancheggiata da librerie ed è dentro una stanza colma di libri che scopre Garcia Lorca, si lascia penetrare dalla narrativa di Lezama Lima e si immerge nella poesia di José María Heredia. E come dimenticare il Castillo de La Punta, soprattutto il Parque de los enamorados, che raggiunge mano nella mano a una ragazza dopo aver attraversato la strada evitando il traffico, un traffico che per un provinciale di Gilbara sembra impossibile e rende L’Avana una città di molte macchine e poche luci. Tutto è relativo, perché da Piccadilly Circus la prospettiva è mutata e L’Avana, vista da un europeo abituato a metropoli soffocanti, pare un piccolo centro dove si vive ancora come un tempo. Cabrera Infante raggiunge Parque Central, il centro dell’ozio, crocicchio obbligato di pedoni, veicoli e viaggiatori, si ferma a osservare la vita che scorre sotto il Capitolio, tra venditori di granita fatta in casa, gelatai improvvisati vestiti di bianco e bambini per mano alle madri che rientrano da messa. Un quartiere centrale dove durante il passeggio domenicale si incontrano borghesi ben vestiti, donne curate, ragazzini impomatati figli di spagnoli, ma anche mulatti, neri, lavoratori che trascorrono il giorno di festa.
L’Avana di oggi è troppo cambiata da quella che dipinge lo scrittore. Non era una città ideale in balia di ricchi borghesi ma non lo è neppure adesso che hanno nazionalizzato la miseria. Cabrera Infante lo sa bene, lui fa parte di quel gruppo di borghesi che deve partire perché non può vivere omaggiando un tiranno, non sa fare il Carpentier della situazione. Uno scrittore può perdere tutto, ma non la dignità e allora decide che non può restare per farsi consigliare cosa scrivere negli articoli e come organizzare la trama di un romanzo. Londra è troppo diversa dalla sua Avana, ma lui apprende l’inglese e scrive meglio di Hemingway in una lingua che un tempo considerava straniera. Potenza della cultura che non ti rende straniero in nessuna terra, che lenisce la nostalgia di una casa lontana. Lo scrittore ricorda il quartiere Colón, le prostitute ammiccanti ai lati del viale che fiancheggia il cimitero monumentale, una selva di seduzioni piena di fiori profumati, ma velenosi. A Londra quando scoccano le nove della sera non accade niente di speciale, come sempre fa freddo, le persone si rifugiano in case accoglienti e la cena è finita, ritmi da capitale europea che chiude in fretta le giornate. All’Avana la cannonata delle nove parte dalla Cabaña, ricorda la dominazione spagnola e mette in scena una rappresentazione consueta, scuote la città fino al cuore segreto e palpitante di Colón. Lo scrittore si lascia suggestionare dal ricordo di un panorama stupendo che si apre davanti agli occhi salendo all’ultimo piano di un palazzo dell’Alto Vedado, in una terrazza piena di panni tesi ad asciugare sotto il forte sole avanero. Il Vedado domina tutte le case dei dintorni e scopre la vista del mare in lontananza, apre un panorama bruciato dal sole e un cielo azzurro intenso. Il nostro cielo era anche il nostro inferno: al mattino eravamo accarezzati dalla brezza marina, ma al pomeriggio eravamo colpiti in pieno dal sole a picco, sole calante ma cocente. Cabrera Infante ricorda se stesso bambino nel Parque Maceo, vede il monumento bronzeo a un eroe dell’indipendenza, sua madre lo tiene per mano, racconta la storia mentre lui siede in una panchina e ascolta. Il muro del Malecón vicino a Parque Maceo è un luogo molto frequentato dagli avaneri e fissa le tappe di una vita che scorre lentamente. Lo scrittore ci passa il tempo con lo zio nei pomeriggi senza nubi dell’autunno del 1941, ci torna con i compagni di liceo, seduto ai giardini di fronte al Malecón a guardare le ragazze dirette all’anfiteatro o di ritorno dal Prado, ma ci discute pure di letteratura con i colleghi della rivista Nueva Generación. Il muro del Malecón segna lo scorrere della vita degli avaneri e rappresenta un confine simbolico tra la città e l’oceano. Gli avaneri hanno la strana abitudine di sedersi voltando le spalle al mare, guardando passare le auto, abitudine che sorprende non poco lo scrittore venuto dalla provincia, perché le auto in corsa affascinano per la velocità inconsueta, ma lo spettacolo vero resta dall’altra parte del muro. Lo spettacolo era il mare, la costa esigua, la scogliera, la marea fluente e poco più lontano, a un chilometro circa al largo, la corrente del Golfo, quella massa violetta, quasi solida ma fluida, che si spostava inarrestabilmente da sud a nord anche se sembrava muoversi da ovest a est, in senso contrario al sole, un fiume nel mare; di notte era un buio misterioso in cui brillavano le lampare dei pescherecci d’altura, di giorno un habitat affascinante per i pesci che vi guizzavano: le frecce rapide dei pesci volanti, il volo come al rallentatore delle mante tra due acque, le temibili pinne dei pescecani, i pescatori dalla riva che pescavano dal muro, con lenze che arrivavano fino a cento o duecento metri in mare…La cosa incredibile è che quello spettacolo fantastico della natura non interessa molto agli avaneri che se lo perdono a vantaggio delle auto veloci che corrono lungo la strada. Il Malecón resta il viale più tipico della città delle colonne, la lunga direttrice che nel ricordo riaffiora durante notti di lontananza disperata e il suo punto focale resta Parco Maceo, con il monumento al bronzeo guerriero mambí che alza il machete e volta la schiena al paseo, mentre il cavallo scalpitante offre il posteriore all’oceano.
Cabrera Infante deve cambiare la notte avanera con la notte di Londra e perde tutto l’incanto di una notte marinara con la luna piena che si riflette sull’oceano liscio, tranquillo, con appena qualche leggera increspatura d’onde, mentre la luna splende in un cielo senza nubi. Non è la stessa notte sotto questo cielo europeo così freddo e grigio, come non è lo stesso giorno con questi colori tenui, moderati, sfocati. Resta la convinzione di averla persa per sempre quella famosa notte avanera piena di colonne di tanto tempo fa e anche quella voragine della giungla della notte avanera dove gli alberi dei viali e le palme domestiche erano bruciate dal salmastro del mare e lo stesso Malecón sembrava rubato al mare.
L’Avana nel ricordo di un esiliato, di uno scrittore che vive lontano e sa che non può rivederla, torna prepotente alla memoria con i suoi negozi cubani, i magazzini spagnoli, gli store americanizzanti e le boutique francesi. Si sente nostalgia di tutto, persino dell’odore del cinema Esmeralda o del Teatro America, puzza di cinema economico, di sudore, liquori imbottigliati ma stappati, aria condizionata rancida e filtro stagnante di sigarette.
Non potrei mai andarmene di qui, perché la mia vita è qui, all’Avana, afferma Cabrera Infante. Non sa che il destino ha già deciso e che lui dovrà dire addio alla sua terra per non rivederla mai più. Morire in esilio è una sofferenza troppo grande per un poeta capace di cantare con dolcezza ogni angolo della sua terra. Non ci vuol credere. Non può finire così, tra i grigi fumi di Londra e i tramonti nascosti dal colore plumbeo del cielo. Per scacciare la nostalgia lo scrittore ricorda ogni sera la sua terra e la saluta con un semplice: “A dopo”. Cabrera Infante passa tutta la vita a dire: “A dopo”, strana abitudine avanera, una sorta di riluttanza a dire addio, pure se sa bene che non rivedrà la città delle colonne. Resta l’ispirazione letteraria, quella non può toglierla nessuno. Resta la magia che L’Avana ha regalato alla sua giovinezza. Restano i tramonti rosso fuoco che lo scrittore si porta nel cuore per tutta la vita. La magia dell’Avana è nelle piccole cose del quotidiano, in un suono di tamburi, nella danza sensuale di una mulatta, nei sogni a occhi aperti davanti a un lungomare. La città delle colonne ti attende, scrittore in esilio, e forse un giorno celebrerà il tuo funerale.