Da dove nasce la poesia? Come scaturisce, in che modo esplode sul foglio, qual è la sua genesi?. Viviamo in un modo, quello di oggi, dove ognuno e ognuna è poeta, dove basta scrivere due parole per essere “eletti” a servitori del verso. Ma un verso non necessariamente ha poesia al suo interno, anzi spesso ne è il contrasto totale. Una tempesta di parole conformi che non hanno assoluta confidenza con l’aspetto poetico. Basta scrivere. In realtà la poesia è tutt’altro. Spesso si confonde la poesia con la prosa, o la poesia con il sentimento della parola, della semplice generazione della parola. L’amore sovrasta con formidabile roccia questa disfunzione. È nell’amore che si fonda la poesia; si dice. Non è così. L’amore può escludere la poesia, la può rendere superficiale, ripetitiva, dogmatica, morale. Paul Verlaine diceva che prima di scrivere una poesia sull’amore bisognava imparare a scrivere. Poiché è la cosa più complicata che esiste. Vi è un oceano di sguardi che si possono svelare prima di affrontare l’amore; o il cuore. Ecco perché l’amore, nei versi, non va affrontato finché non si è certi di dire qualcosa; e il qualcosa è ginnastica assai ardua. Quindi da dove nasce la poesia? La risposta è tanto semplice quanto celata in questa società: il dolore. La poesia nasce esclusivamente dal dolore del poeta. Dalle più alte ferite del corpo, dall’esasperata tensione, dall’oceano attraversato in apnea. In questo senso posso affermare che Sidera Mantica Rondoni è poeta. Il dolore delle sue liriche è presente in tutti gli aspetti; anche quelli dove affronta sentimenti altri. La Rondoni non scrive semplicemente, inchioda la penna al foglio, lo fa urlare di rabbia, lo tiene sospeso, lo inonda di lacrime e sudore. Il motivo per cui non mi ha generato noia quando ho letto versi d’amore. Poiché è il dolore la cifra poetica di Sidera Mantica Rondoni. Nella lirica Ferite scrive: A volte le parole degli altri / pizzicano come sale / e pungono come ortica. Le parole bruciano e feriscono, si tramutano in armi formidabili, in lame taglienti. Non sono un gioco dove gli invitati, sorridenti, si siedono a un banchetto apparecchiato dal privilegio dell’ottimismo. Nella poesia non esiste l’ottimismo, esso rimane termine inutile che veste un foglio bianco coperto da segni neri. E ancora in La pioggia leggiamo: Ospito all’interno tormentate falene. Le farfalle della notte, le farfalle ripudiate, odiate, poiché non gli viene concesso neanche lo status di farfalle. Questo verso spinge il dolore dividendolo: da una parte la solitudine dall’altra l’incomprensione, la non accettazione. Sidera Mantica Rondoni vive in un contrasto di cromature vitree nate da lontano; dalla stessa infanzia. Ed è la falena l’animale, invisibile e invisibilizzato ai molti, che alberga in lei.
Questo animale bistrattato era anche amato dal grande poeta, dei primi del 900, Arturo Onofri. Onofri vedeva nella falena la ricerca continua della felicità, la motivazione aerea che poteva distrarlo dalla profonda depressione. Lo sguardo a Onofri riprende, in modo forse casuale, con la poesia Madre anarchia, dove i versi scelgono un sentiero libero, libertario. Libertario come il sentiero scelto dal figlio del poeta, Fabrizio Onofri, che nel 1971 fece la sceneggia- tura del capolavoro di Giuliano Montaldo: Sacco e Vanzetti. La falena è testimone nel pensiero della Rondoni come una chimera: Vorrei che tu potessi muoverti con leggerezza, / come fanno le falene di notte / danzando intorno alle luci. Le 59 liriche presenti nel libro seguono un vento su diverse direzioni, un vento singolo che si dirama nei punti cardinali dell’esistente: dal dolore, appunto, alla ricerca della pace, dalla lotta resistente a una società iniqua al sospiro delle tenebre; un vento di riscatto che attraversa la stessa vita della Rondoni. Il verso insegue, in lucida stanchezza emotiva, la rabbia di una mancata carezza. Leggiamo ancora in Fare teatro con il silenzio: Questo tuo volto è una coperta sgualcita tirata da tante mani / che manipolano le membra / e ne fanno mimiche astratte. Taci. Ecco che l’urlo esce dal sordo lamento, si amplifica, imprime la lirica chiudendola. L’urlo è l’ultima sequenza di dialogo. L’urlo chiede, richiede, senza ormai più esito, carezze rinchiuse in un tempo lontano. Ormai disperse: Non c’è tempo di fermare una carezza È già ricordo, è già altro. “Le cose che mi abitano” è un libro che non lascia fraintendimento, né nega la stessa veridicità. Non si può fraintendere la tempesta che abita da sempre nella poeta. La comprensione però si trasforma in forme astratte e fallaci; solo l’autrice conosce i tempi dell’alta e della bassa marea del testo. A me spetta il compito soltanto di osservare la marea, riconoscerla a distanza; vederne la risacca. Quella risacca dove germoglia, faticosamente, la vita. In I fiori essiccati tra le pagine leggiamo: Un filo di fiori mi legherà all’altro capo di me stessa. / -L’altra me- Di là, più oltre. L’oltre, cui faceva riferimento anche la poeta Patrizia Cavalli. Un altro dal sé. Come un corpo diverso, appunto altro, ma fermo abitante del corpo primario; primigenio. Un oltre che non risparmia niente e nessuno, un oltre che è una cascata; ma non di serenante acqua: una cascata di emozioni contrastanti, di perdita di equilibrio costante. Come una giovane disperata, inghiottita dai fumi del vino, che annaspa per rimanere a galla. La sensazione di questa euforia drammatica la troviamo in Ubriachezza: Distillare il vuoto. Inebriati di succo, / bere insieme la solitudine, dissetandoci. / Ballare sopra il vuoto, sopra ai nostri demoni; a quei pezzi di noi, / a quei pozzi colmi di noi / che a volte dissetano, a volte inghiottono In punta di piedi, / sopra la bocca del cielo, con le braccia verso terra / eccoci / lievi,/ di passaggio. Ma come ogni marea, seppur inarrestabile e a tratti violenta e cieca, essa, in un momento non custodito dal tempo, si placa; torna indietro. Lasciando posto a una pace, si inquieta, ma pur sempre una pace. Una pace, certamente, profondamente, effimera ma reale, concreta. Una pace breve ma colma di riposo cercato. Nell’agitazione del corpo, nello spasimo interiore, un raggio di luce che obbliga a sedersi su una spiaggia straniera. Straniera ma amica, sorella. Ed è in questa spiaggia che Sidera Mantica Rondoni cerca l’amore; la fame d’amore: Ho smesso di avere fame quando ho mangiato. / Sembra così ovvio e semplice / invece, / è passato tanto dolore dentro, / conficcato nella pancia. Nella silloge della Rondoni ho riconosciuto la passione per le grandi poete del 900. Ho sentito il suo sguardo nei confronti della Merini, della Pozzi, della D’Andrea. Una raccolta piena di turbamento, drammatica, una ricerca costante di un’alba diversa e di un giorno, finalmente, distensivo; di quiete. Un’antologia da leggere. Un libro da conservare: -Spezzerei con te la poesia, che è il pane del mondo. / A te darei tutta la metà di ciò che mi è giunto e ciò che se ne è andato. / Spezzerei ogni pozzanghera, ogni volto, ogni temporale; dividerei i fili d’erba / e la leggerezza nel calpestarli. / Ti darei metà dei recinti per la gioia di scavalcarli.
OLMO LOSCA
Sidera Mnatica Rondoni scrive: “Nelle ore della mia infanzia, quando la solitudine mi faceva visita, spesso, contemplavo il cielo, e riflettevo su quanto fosse immenso l’universo. Mi rifugiavo nel pensiero che, anche io, facevo parte di questo meraviglioso tutto. Eccomi qui: frammento di luce tra le stelle, murice tra le creature marine, fiore di infiniti prati. Riconoscermi, figlia tra i figli, essere, tra tanti, senza un sopra o un sotto, un primeggiare sulle altre creature: Questo è un sentimento che mi ha accompagnata sempre. Ero una bambina mangiafuoco, una bambina che doveva sopravvivere. Sopravvivere è stato per lungo tempo il mio modo di vivere, e non credevo ce ne fosse un altro. Ero una di quelle bambine definite “difficili”. Avevo (ed ho tutt’ora) dei luoghi fantastici nella mia mente dove trovavo asilo quando ero costretta a stare, per esempio, su un banco di scuola. Io volevo stare con la terra, con le foglie, volevo stare con il mondo. La mia ribellione mi costò due classi ripetenti, bullismo, e molta, moltissima solitudine. Avrei voluto che tutta la mia sofferenza e quella della mia famiglia se la portasse via il vento. Ma la depressione e la povertà non se ne vanno come se ne vanno le stagioni; come un autunno ingiallito che lascia poi il passo al bianco inverno. Bianco come un foglio su cui poter riscrivere la storia. La storia rimane e sono grata alla mia storia. A mio padre, a mia madre e a tutto ciò che hanno rappresentato. Sono grata anche all’immenso dolore che ho attraversato, perché, grazie ad esso, io provo compassione e comprensione nei confronti di chi è più fragile; di chi è a margine e definito “malato mentale” o diverso o clandestino; di chi viene rinchiuso, di chi viene mostrificato e tenuto fuori dal consorzio umano. Se non peggio, dal consorzio di ciò che è, perché vivo, perché sta, nel mondo; come nei confronti degli animali e dei vegetali. Per questo io dico che anche una pietra è viva, ed abita in me, perché la sento. Alda Merini scrisse: “Ho la carne a contatto con la
carne del mondo”. Questa frase è intrisa di ciò che, fin da bambina, ho sentito, in modo naturale, senza davvero comprendere a pieno l’importanza che avesse questo sentire e il miracolo di certe assonanze con la vita fuori di me. Questo corpo non è abitato solo da me stessa, ma anche da ciò che appare a me prossimo: Dai volti, dalle mani, dai manti innevati, dal bruciare delle steppe semantiche. Faccio dimora alle cose di estrema autenticità: l’amicizia, il freddo, la fame, la musica, la poesia, la gioia. Sono un’arca, e le cose (soggetti e oggetti, visibili e invisibili) vivono in me. Gli animali compaiono nei miei sogni, mi vengo- no a fare visita insieme ai luoghi lontani del mio immaginario. È chiaro che, anche lo spazio ed il tempo interiore, oltretutto quello poetico, è ben lungi dall’essere lineare e io sono abitata da me ma anche dalle altre me stesse, con cui continuo ad avere lunghi dialoghi nel profondo, e fare visita ai miei ricordi lontani. Questa arca è un mondo interiore che accoglie chiunque, sia chi uccide che chi cura, sia l’uomo che l’animale non umano, sia la ferocia che la tenerezza. Ciò che è vivo in me mi chiama e, come una tenera carezza, mi ricorda che anche io merito di vivere, nonostante tutte le volte che io abbia desiderato morire; e che la morte è un vestito nudo che non porta vergogna.”