“Le leggi dei padri”, opera prima del poeta Marco Mittica

Articolo di Nicola Fornabaio

Opera prima di Marco Mittica, poeta piemontese di origini lucane, di Montemurro (Pz), paese natale di Leonardo Sinisgalli, ‘Le Leggi dei Padri’ si impone come un libro che coniuga profondità storica e tensione poetica. È un libro di 39 poesie composte tra il 1999 e il 2020, dopo una lunga gestazione, diviso in cinque sezioni (‘I Barbari’, ‘La Chiesa’, ‘Stupor Mundi’, ‘Alma Mater Studiorum’, ‘Tre tempi ingiusti’).

Il volume è un percorso lirico che attraversa il tempo e le radici, scavando nel linguaggio come in una miniera segreta. Mittica dimostra una consapevolezza artigianale rara per un esordiente: il verso libero, sciolto, ondulatorio; la punteggiatura intermittente, lascia spazio a un ritmo prosastico, ora meditativo, ora incalzante, frutto di un lungo lavoro di decantazione e rifinitura del verso.

Le parole di Mittica diventano un giacimento linguistico da esplorare: quotidiane, storiche, arcaiche e auliche convivono senza forzature, in un lessico personalissimo che accoglie e rielabora suggestioni lontane. È una poesia che saccheggia la tradizione per inverarsi in un vocabolario nuovo, capace di mettere insieme, con equilibrio e audacia, orizzonti apparentemente distanti come quelli di Gozzano, Pascoli e Leonardo Sinisgalli, passando da Montale e Ungaretti. «La lingua ritrovata è la lingua dei Padri, è la conquista faticosa, sgranata di una identità riconquistata dal basso, quasi una fune di grani» come ci ricorda nella ‘Postfazione’ Biagio Russo.

Nella sezione ‘I Barbari’, il poeta riflette sulla caduta dell’Impero Romano come emblema di un tempo privo di ordine: «I porti non portano più / stoffa, ma esperti di anarchia / che sanno cosa fare in questo nulla». Qui la storia diventa specchio della contemporaneità, in cui il disorientamento e la corruzione sembrano prevalere.

L’ordine arriva invece nella sezione ‘La Chiesa’, come ci ricorda Mittica nella poesia ‘Primatum Petri’: «Nei tuoi sogni di anarchia si insinua / il desiderio di ordine, vecchio / o nuovo».

In ‘Stupor Mundi’, la sezione con ben 12 componimenti è dedicata a Federico II: si parte dalla nascita pubblica dell’Imperatore, nella piazza di Jesi «Vero è, vero è! Gridavano / gli esini dalla piazza, con tutto / lo stupore del mondo», fino alla grande storia d’amore tra Giovanna di Svevia e Cangrande della Scala, passando per Corradino e Bianca, donna amata e infine sposata da Federico II.

In ‘Alma Mater Studiorum’, la poesia eponima ‘Le Leggi dei Padri’ si distingue per la sua dimensione intima e personale, in cui l’autore riconosce il conflitto tra il richiamo rassicurante della tradizione e il bisogno di aprirsi al nuovo: «se maggio non ti potrà vedere / tu apri le braccia a quest’aprile / di caldo improvviso di origano / e basilico precoce». In ‘Belli boschi’, il rimando a Leonardo Sinisgalli diventa simbolo di radicamento e tensione poetica: «Siedi qui vicino / a me se non ti fermi / non puoi capire l’essenza / di un ramo». Il ramo, come metafora della radice apparentemente sterile ma eternamente viva, richiama la forza segreta del rafano, radice povera e simbolo di un’identità resistente e umile.

Il libro si chiude con ‘Tre tempi ingiusti (una postilla approvata)’, una sorta di postilla che guarda agli uomini di ventura, tra cui Cristoforo Colombo e Giovanni Capoccio da Tagliacozzo, come figure di un destino storico irregolare e potente «Tra le / onde sbiadite / ho visto la tua mappa / cancellato i confini». Qui la poesia si fa memoria, ma non per rimanere ancorata al passato: diventa slancio per un dialogo incessante con il presente.

‘Le Leggi dei Padri’ è un’opera che brilla per profondità e sapienza linguistica. Mittica ha il coraggio di esporre e nascondere, di accarezzare e ferire, lasciando il lettore sospeso tra il noto e l’ignoto. Come ci dice nell’ ‘Introduzione’ Antonio Bux «la poesia per Mittica […] è un avamposto, un trespolo da dove prendere la mira fino a scoprire che la preda tanto attesa non è altro che se stessi».

La poesia di Mittica è un invito a cercare significati dove sembrano non esserci, a recuperare la bellezza nelle macerie della modernità, come nel verso che riecheggia una nuova consapevolezza: «Ora sappiamo che il tempo / non ha intermittenze / la nostra è un’ingenua / scalata sulle macerie del vano». Un libro necessario, che ci ricorda come la parola poetica, anche oggi, possa essere resistenza e riscatto.

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