La nostra società può essere descritta attraverso uno dei binomi più interessanti della letteratura italiana: l’essere e l’apparire di pirandelliana memoria. Qualche ora fa sono stato in un posto bellissimo della nostra Sicilia: Venetico Superiore, in provincia di Messina, una frazione di circa 300 abitanti, dove dal piccolo centro si vede il mare e addirittura le isole Eolie. Un’associazione di volontariato “Eccoci”, presieduta dalla battagliera, Concetta Ialacqua, ha organizzato un momento di riflessione sulle “Maschere Nude di Luigi Pirandello”. Moderati dalla brava pedagogista Donatella Manna, insieme alla professoressa Lina Aricò (del Liceo di Spadafora), abbiamo provato a raccontare le maschere di ieri e di oggi. Ribadendo come Luigi Pirandello è ancora oggi attualissimo. Insieme a noi quattro studentesse del Liceo che hanno intrepretato Luigi Pirandello e i bambini che hanno partecipato ad un Laboratorio curato dal regista Nino Briguglio. Attorno a noi un’esposizione di maschere curata da Francesco Gerbino (dentro l’Urban Center).
Provo a raccontarvi come ho provato a raccontare il mio Pirandello, a renderlo protagonista dei nostri giorni. Sì, perché sembra passato tanto tempo, ma in realtà il pensiero e la poetica di Luigi Pirandello sono ancora oggi davvero importanti. La seconda rivoluzione industriale aveva cambiato le sorti dell’Italia e Pirandello è riuscito ad individuare le conseguenze dell’eccessivo progresso scientifico. Pirandello esprime in forme paradossali il disagio della modernità, giungendo a mettere in dubbio l’identità del singolo individuo. Infatti, secondo il suo pensiero, ogni individuo si costruisce una forma attribuendosi una personalità che è però solo fittizia. L’apparire prevale sull’essere, l’uomo assume non una ma diverse forme che corrispondono ai diversi ruoli che la società gli attribuisce. L’uomo costretto all’interno di questa trappola di convenzioni si riduce a maschera o meglio un insieme di maschere. L’individuo che si crede uno, in realtà si frammenta in centomila diverse immagini, tante quanti sono i soggetti che lo osservano, e si ritrova nessuno. E cosi dietro le molte maschere dell’individuo in realtà si cela il nulla, dove la personalità dell’individuo non è altro che una forma fra tante.
Da un lato ogni uomo soffre nel sentirsi oppresso dalle tante maschere che la società gli attribuisce e vorrebbe ritrovare il libero fluire della vita. Al tempo stesso, ogni persona ha bisogno per vivere di assumere una forma che gli permetta di credersi una e di rapportarsi agli altri. I personaggi pirandelliani una volta comprese le contraddizioni dell’esistenza, si trasformano in maschere nude consapevoli dell’insensatezza della vita e del carattere illusorio di ogni certezza e osservano la propria esistenza con ironia fatta di amarezza e vagano come “forestieri della vita”.
La visione di Pirandello può essere comparata con quella del sociologo canadese Erving Goffman. Egli introduce due dimensioni spaziali che, coerentemente con la sua metafora drammaturgica chiama “ribalta” e “retroscena”. La prima è il luogo in cui avviene la rappresentazione in senso stretto della propria facciata. La seconda, invece, è il luogo, o l’insieme di luoghi, in cui viene preparata e provata la rappresentazione e in cui gli attori possono riposare tra una rappresentazione e la successiva. L’intera prospettiva drammaturgica rappresenta un punto di vista sulla realtà inequivocabilmente sociologico, poiché si basa sulla relazione e su ciò che agisce tra gli individui. Goffman ha interpretato la vita sociale come una rappresentazione che i gruppi sociali mettono in scena di fronte ad altri gruppi.
La vita sociale si divide cosi in spazi di palcoscenico e di retroscena, cioè spazi privati, in cui gli individui non “recitano” e spazi pubblici in cui inscenano una precisa rappresentazione. Naturalmente, il comportamento nel retroscena contraddice il comportamento pubblico: una persona insicura, ad esempio, può assumere in pubblico un atteggiamento spavaldo, e mostrarsi vulnerabile solo nel suo retroscena (ad esempio in famiglia). Pertanto, la società si divide in gruppi di audience e di performance (dove ogni individuo, a seconda delle situazioni, appartiene sia a gruppi di audience che a gruppi di perfomance).
Da sociologo della comunicazione trovo che ci sia un parallelo tra il pensiero di Pirandello e quello che viene fuori dal comportamento degli uomini sui social network. La pandemia che ha sconvolto le nostre vite ha evidenziato ancora di più aspetti latenti. Nei primi mesi della pandemia ho condotto un’indagine “La mia vita ai tempi del Covid”. Ho intervistato 1.858 studenti, 1146 ragazze e 712 ragazzi; 1021 ragazze hanno frequentato la scuola superiore e 125 la scuola secondaria; 613 ragazzi delle scuole superiori e 99 quelli che hanno frequentato la scuola secondaria di primo grado. La ricerca ha evidenziato come sui social tendiamo ad assumere modelli di identità predeterminati pur ritenendo di esprimere la nostra individualità, attuando una sorta di mimetizzazione, con la quale cerchiamo di assomigliare a questi ambienti online e, così facendo, rinunciamo a noi stessi. Ecco che diamo vita ad un io performativo con il preciso scopo di ottenere il gradimento del pubblico che ci segue. L’utilizzo dei diversi social media avviene in funzione degli obiettivi di comunicazione e del pubblico a cui si rivolgono. Più profili. Più pubblici.
I social sono gestiti da imprenditori che hanno fiutato quanto siamo disposti a cedere le nostre emozioni, la nostra privacy, la nostra intimità per farci giudicare e approvare dagli altri. Emerge un forte desiderio di “vetrinizzazione” che ci porta ad esporci su queste piazze virtuali e molto spesso esponiamo anche gli altri per ottenere “like” su Facebook o “cuoricini” su Instagram. Chi gestisce i social network o in generale piattaforme di successo vuole soltanto ottenere il massimo dalla profilazione dei suoi iscritti e guadagnarci un bel po’. Non a caso sono i più ricchi del mondo. Tutti hanno bisogno di loro. Nessuno ormai può più farne a meno.
Assistiamo ad un continuo proliferare di profili falsi. Un’indagine recente presso l’Istituto “G. Marconi” di Vittoria ha mostrato come il 78 per cento degli studenti faccia uso di profili falsi, superando la percentuale nazionale. Un dato davvero significativo che mi ha fatto riflettere, poiché i giovani hanno dichiarato che è “normale” avere un profilo falso per spiare la ragazzo o il ragazzo che amano o per controllare gli altri. Questo numero significativo di ragazzi con un profilo falso ha aperto letteralmente la porta sulla grande questione che sta attraversando l’intera società: la proliferazione della disinformazione. Flussi in crescita esponenziale che hanno consentito l’affermarsi di forme deviate dell’esercizio di libertà che si muovono nell’opacità dell’anonimato.
La crescita di queste dinamiche apre al tema della violenza e all’aumento di fenomeni come cyber bullismo, il sexting o il revenge porn. Insito nel DNA stesso di un falso profilo, è l’interiorizzazione di una visione distorta del principio di tutela della propria privacy. Nell’era liquido-moderna l’inganno è diventato centrale nei processi di comprensione del reale e la distinzione tra vero e falso non sia più percepita. Una generazione fragile e disorientata che non nasconde le sue paure.Come sosteneva il grande sociologo Zygmunt Bauman siamo sempre connessi e sempre più soli. Una delle caratteristiche principali che emergono, soprattutto dalle dinamiche comunicative social, è l’individualismo, la concentrazione su di sé. Il voler offrire una certa immagine di sé agli altri attraverso i social network, giungendo a limiti estremi.
Ho letto di recente un libro molto bello di Byung-Chul Han intitolato “Sano intrattenimento”. Nato a Seul insegna filosofia e studi culturali all’Università di Kunste di Berlino. In questo libro scrive di una metateoria dell’intrattenimento. “L’intrattenimento si eleva a nuovo paradigma, a nuova formula del mondo e dell’essere. Per essere, per appartenere al mondo, è necessario intrattenere. Solo ciò che intrattiene è reale o vero. La distinzione tra realtà vera e finzionale, non è più rilevante, giacchè la realtà stessa sembra effetto dell’intrattenimento. L’assolutizzazione dell’intrattenimento può apparire come degrado agli occhi dello spirito della passsione. In fondo però passione e intrattenimento sono consanguinei”. Ecco il perché di sfide assurde e pericolose che i giovanissimi decidono di intraprendere, esponendo la propria immagine senza alcuna protezione e mettendo a rischio la propria vita. Mi riferisco alle Challenge che circolano sui social e anche sui canali di messaggistica istantanea. L’elemento principale da non sottovalutare è quel sentiero della solitudine che i giovani hanno iniziato a percorrere. Sempre connessi col mondo, ma sempre più isolati e chiusi in sé stessi.
Il dovere degli adulti è quello di vigilare e di supportare le nuove generazioni per un corretto uso delle nuove tecnologie. Bisogna educare preadolescenti e adolescenti, affinché capiscano che non è necessario avere un profilo falso. Devono imparare ad accettarsi e ad accettare gli altri in un mondo che appare prosciugato da esistenze frenetiche e vuote, dove siamo costretti a prendere parte a una competizione grottesca per la visibilità e lo status. Tracciamo il cammino per un mondo migliore senza “maschere” e senza dover interpretare a tutti i costi “Sei personaggi in cerca d’autore” cosi come ci ha insegnato Pirandello.