L’ecologia della parola: l’eredità viva di Papa Francesco nel giorno dell’ultimo saluto

Articolo di Francesco Pira

Dobbiamo custodire e praticare una comunicazione autentica, fatta di percezione, verità e responsabilità. Seguire l’esempio di Papa Francesco significa trasformare ogni parola in un gesto di prossimità, ogni dialogo in un’opportunità di incontro. Perché comunicare, ora più che mai, deve diventare un modo per prendersi cura dell’altro.

Oggi è giorno dell’ultimo saluto a Papa Francesco. Dirette televisive da tutto il mondo. Pagine e pagine di quotidiani e migliaia di articoli sul web per continuare a narrare le tante luci e cercare dove non si riescono a vedere le ombre di un Pontificato straordinario. Non dobbiamo dimenticarci che il Sommo Pontefice Sua Santità Bergoglio è stato vittima di tantissime fake news e di veri e propri esercizi di disinformazione. Ho incontrato due volte di persona Papa Francesco. La prima volta gli chiesi di pregare per me e mi rispose che io dovevo pregare per lui. E la seconda nel mese di gennaio di quest’anno, quando al Giubileo dei Giornalisti e Comunicatori, ci spiegò che chi è un professionista dell’informazione non deve soltanto scrivere la verità ma essere una persona vera.

In un’epoca in cui la comunicazione è diventata spesso rumore di fondo, dove il valore delle parole sembra sminuito dalla loro inflazione e dall’uso distorto nei contesti digitali, Papa Francesco ha incarnato un modello radicalmente alternativo. Il suo pontificato ha rappresentato un laboratorio vivente di comunicazione etica, incarnata, dialogica. Un’esperienza che ha messo al centro la relazione umana, il rispetto del contesto, la verità, e soprattutto l’ascolto. Lontano dal limitarsi alla comunicazione ecclesiale, il suo stile ha contaminato positivamente il discorso pubblico, indicando una via comunicativa basata su prossimità, empatia e responsabilità.

La sua “rivoluzione comunicativa” inizia già nella scelta del nome: Francesco, in onore del Poverello di Assisi. Una scelta che non è solo simbolica, ma espressiva di una precisa visione: comunicare attraverso la semplicità, la vicinanza, la protezione. Con quel nome, Jorge Mario Bergoglio ha tracciato una direzione chiara: rimanere accanto agli ultimi, dare voce a chi non ce l’ha, e soprattutto trasformare la comunicazione in un esercizio di fraternità e ascolto.

È riuscito a trasformare questa attitudine all’ascolto in microstorie che arrivavano dritte al cuore delle persone, ovunque nel mondo: tra i ricchi e i poveri, tra chi parla lingue diverse e ha culture e colori differenti. Per lui, raccontare significava accorciare le distanze, entrare nel vissuto quotidiano della gente. È stato un Papa amico, complice, un punto di riferimento. Usava episodi della sua vita per farci sentire vicini – ovunque: nelle aree decentrate, nei grandi centri, nei dialoghi con cattolici, cristiani e con gli esponenti di tutte le religioni.

Fra Giulio Cesareo, direttore dell’Ufficio comunicazioni del Sacro Convento di Assisi, ha ricordato Papa Francesco come “un grande comunicatore, un comunicatore creativo”, in un’intervista rilasciata all’ANSA (Umbria).

Secondo fra Giulio, il Papa ha incarnato perfettamente le due qualità fondamentali per essere un buon comunicatore: “saper ascoltare e saper parlare alle persone del nostro tempo”. Ha evidenziato come Francesco “abbia saputo ascoltare le grida e le speranze del nostro tempo”, entrando in una relazione autentica con il mondo contemporaneo. E ha aggiunto: “Non si può comunicare senza ascoltare. Altrimenti si è solo dei megafoni”.

Una riflessione articolata sul suo stile comunicativo è stata proposta anche da Adriano Fabris, professore di Filosofia morale e di Etica della Comunicazione all’Università di Pisa, in un’intervista rilasciata alla giornalista Gigliola Alfaro per agensir.it. Fabris ha indicato tre ambiti in cui Papa Francesco ha compiuto una vera rivoluzione: il suo modo diretto e veritiero di comunicare, la gestione dei media, e la riflessione critica sulle nuove tecnologie e sull’etica della comunicazione.

Fabris sottolinea come Francesco “trasmetteva la parresia, trasmetteva il fatto che quello che uno diceva lo pensava e quello che uno pensava lo diceva”. Una veridicità che creava fiducia e rendeva credibile il suo messaggio.

La sua comunicazione era fatta anche di silenzi, di gesti, di presenza incarnata: “Sono gesti che parlano e che danno il segno di una fede, di un impegno e di una carità fino in fondo”.

E ancora, sulla gestione dei media, Fabris evidenzia: “Papa Francesco è riuscito a far passare il messaggio cristiano attraverso il mezzo, senza farsi assorbire dal mezzo”. Ha saputo adattarsi al contesto contemporaneo senza mai snaturare il contenuto del messaggio. Anche nel mondo dei social media, pur restando fuori dal loro uso diretto, la sua presenza è stata forte e significativa.

Il terzo elemento riguarda la riflessione teorica e pastorale: nei suoi messaggi per le Giornate mondiali delle comunicazioni sociali, Francesco ha costantemente promosso una comunicazione veritiera, affidabile, e capace di “testimonianza”, anche nell’era dell’intelligenza artificiale.

L’eredità comunicativa di Papa Francesco è, dunque, molto più che un insieme di espressioni entrate nell’immaginario collettivo – come “pastori con l’odore delle pecore” o “cristiani da salotto”. È un approccio radicale e profetico, che restituisce al linguaggio il suo potenziale umano, relazionale e spirituale. Un’ecologia della parola che cura, che edifica, che unisce. Per lui, le parole non erano mai solo parole, ma vere e proprie azioni.

Come ha detto: “Le parole non sono mai soltanto parole: sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Possono collegare o dividere, servire la verità o servirsene”.

Consapevole delle dinamiche della comunicazione moderna, Francesco ha parlato apertamente di fake news, denunciando l’effetto distorsivo di un’informazione manipolata. Ha affermato: “Una brutta comunicazione deforma la realtà”, mettendo in luce i rischi di una società in cui la divulgazione viene piegata agli interessi o al sensazionalismo.

Ai Paolini, ha ribadito: “Se noi prendiamo i mezzi di comunicazione di oggi, manca pulizia, onestà e completezza. Sempre ci sono difficoltà nel comunicare bene, e nella comunicazione c’è sempre anche qualche pericolo di trasformare la realtà”.

Era profondamente convinto che la verità fosse sempre indispensabile. I suoi appelli rivolti ai giornalisti erano puntuali, mai occasionali. A loro puntualizzava con chiarezza: “Il giornalista non è mai un contabile della storia, ma una persona che ha deciso di viverne i risvolti con partecipazione, con compassione”.

Anche sul fronte delle tecnologie ha lasciato un insegnamento incisivo. Parlava della necessità di non fermarsi alla connessione superficiale, ma di sfruttarla davvero per creare relazioni vere. Ci lascia un’eredità immensa.

Oggi, in una società attraversata da crisi di senso e di fiducia, la sua voce continuerà a riecheggiare come un richiamo alla responsabilità di ogni parola. Perché – come ci ha insegnato – “comunicare non è un atto neutro: è scegliere se costruire ponti o muri”.

E a noi, adesso, cosa rimane da fare? Dobbiamo custodire e praticare una comunicazione autentica, fatta di percezione, verità e responsabilità. Seguire l’esempio di Papa Francesco significa trasformare ogni parola in un gesto di prossimità, ogni dialogo in un’opportunità di incontro. Perché comunicare, ora più che mai, deve diventare un modo per prendersi cura dell’altro.

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