Leonardo Sciascia: cento anni fa nasceva il genio del Novecento

Articolo di Merelinda Staita

Nel panorama letterario del primo Novecento si colloca Leonardo Sciascia. Uno scrittore, giornalista, saggista, drammaturgo, poeta, politico, critico d’arte e insegnante. Un vero e proprio critico del tempo in cui ha vissuto. Sciascia ha cercato sempre di individuare nuove forme espressive per fonderle insieme al suo impegno etico e sociale. Un intellettuale capace di scrutare la realtà, della Sicilia e dell’Italia di quegli anni, in maniera precisa e ricca di dettagli. Nato a Racalmuto (Agrigento) l’8 gennaio del 1921, esordisce nel 1956 con una raccolta di brani saggistico-narrativi dal titolo: “Le parrocchie di Regalpetra”.

La sua vasta produzione letteraria comprende opere significative di diversa natura come: romanzi, racconti, saggi, poesie, testi teatrali, sceneggiature, audiolibri, oltre agli articoli giornalistici. In particolare voglio ricordare: “L’affaire Moro” del 1978, Sciascia partecipò alla commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro Moro, e “Il giorno della civetta”, opera rivolta ad un pubblico vasto e che affronta il fenomeno mafioso.

Amo Sciascia e il mio romanzo preferito è proprio “Il giorno della civetta”. Romanzo ultimato nel 1960 e pubblicato per la prima volta nel 1961 dalla casa editrice Einaudi. Narra l’inchiesta su un delitto di mafia svolta dal capitano Bellodi. Un giovane animato da buoni propositi e che crede nella giustizia. Quando sta per comprendere la verità, egli viene a conoscenza di un sistema di connivenze tra mafia e politica che lo portano a non indagare e a lasciare la Sicilia. Il volume analizza un tema importante dal punto di vista sociale e lo immerge in una forma narrativa coinvolgente e intrigante. Sciascia cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica, attraverso una modalità di scrittura chiara e fruibile a tutti.

Il passo che voglio ricordare, perché ritengo sia ancora oggi attualissimo, è quello in cui il padrino mafioso Mariano esprime il suo rispetto per il protagonista del romanzo, il capitano Bellodi:

«Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi.

E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre. Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo».

Il padrino mafioso e il protagonista del romanzo, il capitano Bellodi, sono due personaggi che pur essendo avversari, mostrano delle affinità. Bellodi rappresenta l’ideologia dell’Italia antifascista che punta alla legalità e al rispetto dei diritti, mentre il capomafia locale incarna un’ideologia arcaica, basata sull’egoismo e la violenza per prevaricare sui più deboli. Entrambi sono forti e combattivi, ma soprattutto si credono portatori di verità assolute.

Quando don Mariano spiega la sua visione del mondo riconosce in Bellodi i tratti dell’ “uomo” vero e per lui nutre rispetto.

Volendo associare questo passo alla nostra realtà attuale direi che gli uomini sono quelli che si assumono le loro responsabilità e si impegnano per raggiungere degli obiettivi.

I mezzi uomini non hanno le capacità etiche e morali dei primi, ma riescono a portare a termine alcuni incarichi e alcuni doveri.

Gli ominicchi sono omiciattoli, uomini di poco conto e il termine è allo stesso tempo un diminutivo e dispregiativo. Oggigiorno il nostro microcosmo, perché no anche il macrocosmo, è pieno di ominicchi ossia asini vestiti con la pelle di leone, di memoria trilussiana, che giocano a fare gli uomini non riuscendoci.

I “quacquaraquà” viene identificato sul portale Treccani “come voce siciliana, ma diffusa anche altrove, con cui si allude genericamente a chi parla troppo, quindi chiacchierone (e, nel gergo della mafia, delatore), o anche a persona alla cui loquacità non corrispondono capacità effettive, e perciò scarsamente affidabile”. Io li definirei come privi di valori e dediti ad ottenere vantaggi per sé stessi. Non vogliono obblighi e sono capaci di vendicarsi, come un branco di anatre all’assalto, visto il valore fonosimbolico del termine.

Sciascia è stato davvero lungimirante nelle sue indagini sociologiche e con il romanzo “Il giorno della civetta” ha puntato alla denuncia e alla riflessione sui valori della legalità, sull’importanza del diritto e del rispetto verso gli altri.

Sciascia, lasciatemelo dire, meriterebbe molti più onori di quanti ne abbia già ricevuti.

Related Articles