Una pessima fiction Rai mi spinge a tirare fuori dai cassetti una mia vita di Leonardo raccontata da se stesso, scritta un po’ di tempo fa, per cercare di riconquistare un pizzico di rispetto per la storia, pur con tutte le necessità narrative del caso. Magari può servire a qualcuno che ha preso per buone le verità della televisione, come cantava un mio amico che adesso non c’è più. La fiction Leonardo, una serie ispirata alla vita di Leonardo, non merita neppure una recensione negativa. Non merita proprio di essere vista. Pessima figura italiana, ché anche Leonardo ci facciamo scippare dagli americani che lo stravolgono e lo raccontano in salsa telenovela brasiliana e melodramma fantasy. I film televisivi americani contemplano buoni e cattivi, una verità certa e poco problematica, una fotografia scura all’inverosimile e tanti effetti speciali digitali. Quanta tristezza. Ho visto la prima puntata di Leonardo, la serie. Per me la serie è terminata.
Era il 1452 nel borgo di Vinci, campagna toscana, a due passi da Firenze e tra le colline del Chianti, nessuno l’avrebbe detto che in quel paesino sarebbe nato un pittore, un artista, un uomo d’ingegno. Definirmi è sempre stato un problema, mi consola che è tale pure per gli altri, con me non valgono i luoghi comuni, tipo un artista non ha senso pratico, sa soltanto dipingere o scrivere, no davvero. Io sono Leonardo Da Vinci, architetto, ingegnere, poeta, scrittore, pittore, tuttologo nato, ma non come certi dei tempi moderni che dicon soltanto, no, io ci so fare davvero. Nasco da padre notaio, mia madre non l’ho mai conosciuta, almeno non chi mi ha generato, per me c’è solo la donna che mio padre ha sposato, la contadina che mi ha partorito è scomparsa, non all’altezza del rango, non poteva essermi madre, mi ha lasciato a palazzo con i fratellastri e mio padre. La mia passione è il disegno, schizzo qualunque cosa mi capiti a tiro sopra un pezzo di carta, mi porto appresso un quaderno e scribacchio, faccio le bozze, annoto le cose che vedo, quando vien sera riguardo, rifinisco, immagino cose impossibili. E tengo il mio prezioso quaderno tra cuscino e materasso, nascosto, riposto tra i sogni che stanno nascendo e il mio fantasticare. Ho quindici anni quando mi prende a bottega il Verrocchio, capisce subito che ci so fare, mi affida un lavoro, un Battesimo, finito a metà; completo la parte destra, lui resta stupito al punto che gli vien voglia di smettere, ma mica lo fa, quelle son tutte leggende. A vent’anni divento pittore, ai miei tempi è un mestiere artigiano, bisogna iscriversi all’Arte dei medici e degli speziali per esercitare. E allora dipingo, disegno, leggo di tutto, enciclopedico come sono e sarò per tutta la vita, mai sazio di apprendere il nuovo, sia fisica, matematica, botanica, astronomia, medicina, pure letteratura e canzoni, poesia e narrazioni. Non mi stanco di niente. Non amo le donne, questa storia ormai la sapete, mi danno del sodomita, finisco sotto processo, uno scandalo che oggi sarebbe evitato. Nel frattempo canto, cavalco, suono il liuto, mi vesto elegante, come un damerino, la mia lunga barba è composta, conosco le buone maniere. Venticinque anni son pochi, devo calmare i bollori, intanto dipingo una pala d’altare per la Cappella di San Bernardo, l’impiccagione di due cospiratori dei Pazzi, dopo la fallita congiura. Vorrei veder pendere i miei calunniatori legati a quei cappi, chi mi dà del sodomita, forse per questo mi vien così bene. Ho quasi trent’anni quando dipingo l’Adorazione dei Magi per San Donato, faccio alcuni disegni, poi vien fuori la Vergine con il bambino e intorno i Re Magi, ecco l’idea originale, sullo sfondo ci metto un anfiteatro, poi disegno diversi cavalli, che mi piacciono tanto, che mi rendono lieto cavalcando nei boschi. Sì, non è male quell’Adorazione dei Magi, ma potrebbe venire migliore, ché io mai son contento, so bene che potrei fare dei capolavori. Distruggo, rifaccio, cancello, poi lascio incompiuto, certo mi capita pure d’incassare in anticipo e non finire il lavoro. Ma io sono un artista, se vogliono cose da poco in tempi brevi, chiamino un altro, mica Leonardo Da Vinci, io faccio solo cose importanti, pure un mio abbozzo vale un quadro completo d’un mediocre pittore. Ma lo capiranno, basta aspettare. E in fondo niente vale un’idea, la sola cosa che conta, quando hai avuto l’idea a poco serve il lavoro, quello può farlo chiunque, invece l’idea segna il genio, mica l’artigiano.
Milano è ormai la mia meta e ho solo trent’anni. Via da questi bifolchi empolesi, dai concittadini pezzenti, da questi taccagni che vogliono persino lavori conclusi e poi pagano quattro fiorini, tiran sul prezzo. Milano sì che è una meta importante, c’è Ludovico il Moro, un mecenate che mantiene a corte pittori, scultori, architetti che vengono da mezza Italia. E poi a Milano si mangia, si gode, non ci son provinciali pronti ad accusarti di oscenità e di sodomia; si fanno le feste a palazzo, si danno commedie, si fanno tornei, gare di scherma, di tiro. A Milano tutto finisce nel fasto glorioso di corte e Ludovico è sempre il primo a cercare una scusa per imbandire un banchetto. E io, che sono il più grande di tutti, devo andare a Milano, per questo scrivo al Moro, gli dico se cerchi un pittore, uno scultore, un ingegnere militare non importa cercare tre persone, ci son io che so fare di tutto, prendi me che l’affare è sicuro. Dico a Ludovico che so gettare ponti, dragare fiumi, fabbricare bombarde, scolpire, disegnare, dipingere, persino altre cose, insomma, modesto non sono, ma mi fermo, non vorrei esagerare. Milano diventa la mia casa, la corte dove organizzo spettacoli e feste, confeziono cinture per dame e dipingo ritratti che vanno perduti, peccato, ché non faccio solo Ludovico, pure la moglie, i figli, infine il signore mi dice Leonardo, non ti fermare, dipingi le amanti. E io dipingo le amanti, le faccio persino più belle di come sono, ma poi tutto va perso, niente è rimasto dei miei capolavori, dovevate fare attenzione, ché il genio non può mica tornare. Ne faccio di cose belle a Milano, ma se le son fatte fregare, ché la Vergine delle rocce è finita a Parigi, al museo del Louvre, come tante mie cose. Dipingo l’Ultima cena con quel chiaroscuro che torna di nuovo e lascia il mio segno d’artista, tre anni di duro lavoro per un convento, per quattro frati smaniosi di vedere il mio quadro geniale appeso alle tristi pareti d’un refettorio. E avevano pure il coraggio di sollecitare, volevano che facessi presto, finisce che Cristo lo tiro un po’ via, lo faccio come certi colleghi artigiani, ma il resto ragazzi si vede che c’è la mia mano, la mano d’un genio. L’Ultima cena come l’ho dipinta io non l’ha dipinta nessuno, tavola bianca, sfondo di tre finestre, paesaggio inventato, e poi quei ritratti, quei volti, drammatici, potenti, eleganti. I frati non son stati neppure capaci di conservarlo bene, ché ci vuol cura a custodire un dipinto fatto con colori a olio. Io son Leonardo, mica un imbianchino che affresca, non faccio le cose in fretta, mi serve l’idea e poi la calma per poter continuare a inventare, non eseguo, sono un artista. Frati maledetti! Fanno sbiadire i colori, scavano una porta per mettere in comunicazione cucina e refettorio. Si chiama un artista per poi deturparne il lavoro? La pioggia fa il resto, l’umidità corrode, rovina, distrugge. E in fondo a nessuno importa poi molto se un dipinto scompare, ci son cose ben più importanti cui dover badare.
Va da sé che so fare di tutto, un genio nasce una volta per secolo e nel 1400 è toccato a Leonardo, per Dio! Maneggio il pennello come un artista ma pure il bulino, scolpisco come dipingo, forse anche meglio, se mai si può fare di meglio, così Ludovico mi chiede una statua equestre del padre. Deve far impallidire il Donatello col suo Gattamelata, pure il Verrocchio e il Colleoni! Grida il sovrano. Ma certo, che mai ci vorrà a fare di meglio, mi metto a studiare com’è fatto un cavallo – ho passato l’adolescenza in groppa alle bestie -, faccio disegni, butto giù un calco di gesso, una roba mica da poco, alta otto metri e mezzo. Piace a tutti quando lo espone il signore ma poi quando arriva il momento mancano i soldi per fondere in bronzo la statua, finisce che resta soltanto quel gesso e che se lo rubano a pezzi i francesi.
Basta Milano. Ludovico pareva migliore ma poi non aveva mai un soldo, dissipava tutto in festini, amava le donne, cosa che come sapete non condividevo, ma ognuno ha i suoi gusti, come dice un mio amico toscano. La mia nuova casa è vicina, si chiama Mantova, dove nacque Virgilio, in mezzo a due fiumi, c’è Isabella d’Este ch’è bella come il suo nome, pure se come vi ho detto non smanio per le donzelle, lei è una vera regina. Come mi capita spesso comincio il ritratto ma non lo finisco, resta soltanto lo schizzo di donna Isabella, ma è schizzo d’artista. Tempo è ancora di partire, puntata veloce a Venezia, ché poi si torna a Firenze, la mia città perduta, il mio tempo da ritrovare tra giardini in fiore, colline che fanno da cornice allo splendore e un fiume che scorre in mezzo alle case. Quanto sarà bella Firenze quando la rivedi dopo diciassette anni, persino i profumi del tempo passato, anche i piccoli ricordi giovanili diventano rimpianto, sfumano in rivoli di nostalgia. Rientro a Firenze, porto con me una corte di allievi, giovani pittori e scultori, che scelgo per doti artistiche ma pure perché son belli, non amo le donne ma non son mica un santo, non sono un asceta, la bellezza dei corpi maschili che ritraggo nei quadri e nelle mie statue è quella che colgo nei corpi di chi mi circonda. Son ricco, posso permettermi una folta schiera di giovani che mi aiutano nel lavoro, ché poi a Firenze me ne danno di nuovo e io disegno, dipingo, ma lascio incompiuto, tanto mica ho bisogno di soldi.
La pittura mi avrebbe stancato. Forse ne ho fatta troppa in passato. Adesso quel che voglio è studiare la scienza, la fisica, la matematica, l’ingegneria, appuntare nei miei quaderni tutto quel che ho capito, scrivendo da destra a sinistra, non solo perché son mancino, un poco mi piace giocare al mistero, vergare nei fogli progetti e non farli capire, con note astruse illeggibili per strabilianti invenzioni. A cinquant’anni ritorno a Milano dal Valentino, ché Cesare Borgia mi vuole ingegnere militare, so fare anche quello, ci mancherebbe. Strana la vita che da Milano ti porta a Piombino, cittadella sul mare della mia Toscana, ché il Borgia comanda anche qui e mi manda a vedere che cosa posso inventare per bonificare paludi e acquitrini. Io come al solito parto, studio, disegno, mi metto a scrivere il modo di seccare il padule di Piombino, poi osservo il moto delle onde tra Baratti e Populonia, misuro la Rocchetta in una piazza immersa nel mare come la prua d’una nave, studio i venti di grecale e tramontana. Firenze mi manca, però, e poi si torna sempre alle proprie radici, ai vecchi amori, ché quando mi chiama la Signoria per fare un affresco non posso mancare. Mi vogliono con Michelangelo, dovrei dipingere la battaglia di Anghiari, ma non mi vien bene, nonostante le prove e i bozzetti, nonostante i miei amati cavalli, ché i colori sbavano sopra il cartone, cancellano tutto. È la mia fortuna non finire l’affresco ché faccio una cosa che non vuol fare nessuno, un ritratto d’una certa Lisa, moglie di Francesco del Giocondo, ma mica posso farlo come un pittore qualunque, lo immergo in un paesaggio irreale, tra alberi, torrenti e rocce, poi le metto in bocca quel mezzo sorriso, le faccio la chioma fluente, le spalle carnose, il volto rotondo, il naso ben modellato, lo sguardo vibrante e le mani posate l’una sull’altra, fasciate da un’ampia veste. Pure quel quadro sta in Francia, adesso, forse è meglio così, magari è al sicuro, magari non ci fanno i buchi come quei maledetti frati capaci di far ammuffire i miei quadri.
Ritorno a Piombino, grazie al Machiavelli, che mi manda da Iacopo IV, signore d’Appiani, come supervisore della roccaforte, devo fare il consulente e mi vien bene, ché disegno le mura del fronte di terra e di mare, il Cassero, i camminamenti della Cittadella, le mura e i torrioni per difendere il palazzo signorile, insomma invento un sacco di roba. Solo progetti e disegni, badate, ché a me interessa l’idea, poi la realizzino gli altri, gli artigiani, il mio compito finisce con le cose geniali. Ma qualcosa hanno fatto, mi pare, almeno due torri cilindriche, una davanti al Cassero, l’altra davanti alla Cittadella dove vivono i Signori, vicine al mare, sono opera mia, sono identiche al mio disegno, non le attribuite a un artigiano tra i tanti, ché vengo dall’aldilà a tirarvi i piedi. E mentre studio le fortificazioni di Piombino disegno il Gatto murale, una macchina per gli assedi, per avvicinare non visti e distruggere mura nemiche, la mia macchina da guerra preferita, in ventinove disegni con tutti i suoi miglioramenti. Piombino mi affascina, mi piace il gioco dei venti che sembrano divinità implacabili quando sferzano la città protesa nel mare; disegno la costa, il paesaggio, descrivo i nubifragi di novembre e dicembre, le mareggiate, gli smottamenti. Quando racconto il mio Diluvio Universale, la mia idea letteraria di alluvione, cito tre volte Piombino, ché il mio solo diluvio son le onde del mare di Piombino, tutta d’acqua schiumosa, l’acqua che risalta, i venti battenti la costa, la pioggia con rami e alberi misti coll’aria, acqua che piove nelle barche. Piombino mi resta nel cuore anche per le ombre verdi dei suoi tramonti, così utili nella mia pittura, al punto che non dimentico quel tramonto novembrino, quando la rossa luminosità diffusa e la luce del sole, incrociandosi, dispensano ombre verdi sul muro bianco.
Ecco, adesso basta Firenze, basta Toscana, ché la nostalgia s’è placata. Adesso si torna a Milano a decorare palazzi, a costruire ponti e canali, persino a dipingere ancora. Ho passato da poco i sessanta quando mi chiama Papa Leone X, vorrebbe un quadro, io un poco a Roma ci vivo, ma il dipinto non lo finisco, poi Roma mica mi piace, troppi concorrenti, c’è Raffaello che va per la maggiore, e io devo stare da solo, devo sentirmi omaggiato. Torno a Milano, dove ci sono i francesi, Francesco I, un raffinato che ama le arti, un mecenate con cui vado abbastanza d’accordo; il re mi convince a trasferirmi in Francia come ingegnere di corte e mi paga un sacco di soldi per stramene ad Amboise dove discetto di scienza con Melzi, il mio giovane allievo che mi segue ovunque. Resto in Francia fino alla morte, continuo a dipingere nonostante una paresi che mi coglie la parte destra del corpo, mangio poco, mi curo, son vegetariano per tutta la vita, ipocondriaco come pochi, tormentato dai dolori, mi circondo di medici. Non posso restare inattivo, invento e intuisco, mi costruisco persino le ali e provo a volare, ma la cosa non mi vien così bene; un giorno disegno un fucile un po’ strano che spara proiettili a ripetizione, poi leve, carrucole, punti d’appoggio, fortificazioni, argani a viti, paracaduti, gallerie che forano i monti.
Studiare è la mia passione, compilare carte geografiche, osservare il moto del sole e della terra, capire eventi leggendari avvenuti in passato, filosofeggiare e provare l’esistenza di Dio. Dicon di me che ho previsto un sacco di cose che sarebbero venute in futuro, forse è vero, nei miei centoventi quaderni ho riassunto il sapere del tempo, mi ci sono immerso, mai sazio di studi e certezze. Ho avuto difetti, certo, trovate un uomo privo di difetti e avrete trovato un mostro. Ambizioso, adulatore, gaudente, presuntuoso, vanitoso, avido, innamorato della vita e di quel che può dare di buono. Mi son sempre circondato di bei ragazzi e di grandi adulatori, ché mi piaceva sentirmi dire bravo, sei il migliore, in fondo lo ero, adulando dicevano la verità. Sessantasette anni quando mi strappa la morte dal suolo di Francia. Conservate i miei capolavori. Fate in modo che siano degni del mondo. E non pensate troppo al sorriso ambiguo della Gioconda. Ci sta che sia stata soltanto una pennellata storta.