Lettere al nostro fanciullino: verso la felicità, sulla scia delle senecane Epistulae ad Lucilium

Articolo di Paolo Nebbia

Dentro ogni uomo alberga un fanciullino: da Platone a Pascoli questa considerazione risuona come un monito per tutti quegli adulti che ritengono di aver chiuso definitivamente con il periodo della loro infanzia, ma se con quella componente puerile, che ha vissuto il nostro passato, avessimo l’opportunità di discorrerci, cosa le diremmo? Quali insegnamenti o moniti il presente potrebbe offrire al proprio trascorso? Proviamo a rispondere a queste domande lasciandoci guidare da alcuni spunti contenuti all’interno delle Epistulae morales ad Lucilium di Lucio Anneo Seneca.

Secondo il parere di alcuni studiosi, il Lucilio della raccolta – dai più ricondotto ad un amico e discepolo campano del filosofo – potrebbe rappresentare il giovane Seneca stesso (Lucilius in latino significa ‘piccolo Lucio’), al quale l’ormai anziano autore cordovano tenterebbe di impartire delle preziose lezioni di vita. In quest’ottica, l’insieme delle 124 lettere costituirebbe una sorta di dialogo interiore dell’autore, che discorrendo con il proprio puerile passato detterebbe le pagine di un vero e proprio testamento spirituale.

Molti liceali hanno bisogno di raggiungere il quinto anno e di studiare Seneca per avere l’intuizione che forse il loro studio del latino, magari vissuto spesso in modo coercitivo, non è stato poi così vano, poiché incontrano qualcuno che gli parla in modo sincero della felicità e che gli indica una via nobile – ma pur sempre alla portata – per raggiungerla. Gli studenti, più in generale, si trovano spesso in difficoltà, dal momento che non riescono a trovare motivazioni valide per affrontare le fatiche che lo studio scolastico inevitabilmente comporta, vorrebbero convogliare le loro energie in altre attività, che magari non abbiano a che fare con quel sapere che tutti gli dicono essere così importante, senza però essere riusciti a spiegargli perché effettivamente lo sia così tanto.

Seneca non ci gira tanto intorno e al suo Lucilio lo dice chiaramente: Liquere hoc tibi, Lucili, scio, neminem posse beate vivere, ne tolerabiliter quidem, sine sapientiae studio, et beatam vitam perfecta sapientia effici, ceterum tolerabilem etiam inchoata (“so bene, o Lucilio, che comprendi questo anche da solo, che nessuno può vivere in modo felice, e neppure in modo sopportabile, senza lo studio della sapienza; e che una vita felice è garantita da un’ottima sapienza, una vita tollerabile anche solo da un barlume di sapienza”, Epistulae ad Lucilium, 16, 1). Questo sì che costituisce uno stimolo efficace per lo sforzo che lo studio richiede: vale la pena sudare per il sapere, poiché la sapienza conduce alla felicità.

È interessante notare come Seneca nel I secolo d.C. batta un sentiero per la beatitudine in un tempo incerto e oscuro come quello del principato neroniano, nel quale la dignità stessa degli uomini era costantemente minacciata. Il filosofo di Cordoba, che era stato precettore del giovane Nerone, aveva provato – come testimoniano le pagine del De clementia – a tramettere all’imperatore valori quali la clemenza, la pazienza, il perdono, il dominio di sé, tuttavia in quell’epoca sembrava non esserci più spazio per la virtù che Seneca invitava a perseguire. Così, una volta assodato il fallimento del suo progetto educativo nei confronti del princeps, che dopo il matricidio stava progressivamente assumendo le sembianze di malus dictator, il filosofo decide di dedicarsi alla catechesi della sua dottrina, che nella dimensione privata e personale delle Epistulae trova pieno respiro.

Vindica te tibi (Ep. 1, 1): con questa esortazione si apre la prima lettera della raccolta, “rivendicati a te stesso”. C’è un diritto che facilmente l’uomo smarrisce, il diritto su sé stesso: come ci si può incamminare verso la felicità se le redini della nostra vita non sono ben salde nelle nostre mani? Tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva (ibidem): quanto tempo sprecavamo? Quanto ce ne rubavano gli altri? Quanto ne perdevamo noi? Con questi due imperativi (collige e serva), che dopo i tre imperfetti ci riportano bruscamente al presente, Seneca esorta Lucilio: il tempo va raccolto e messo in cassaforte. Adesso. Non possiamo posticipare ciò che urge, specialmente se ciò che urge riguarda la nostra realizzazione interiore, poiché dum differtur vita transcurrit (“mentre si rimanda la vita fugge via”, Ep. 1, 2). Il tempo è lo spazio propizio per la nostra felicità, ma questa occasione – che è poi la nostra vita – si può perdere!

Il riscoprirci perituri, tuttavia, non deve suscitare in noi un senso di angoscia: se tempus tantum nostrum est (“soltanto il tempo è nostro”, Ep. 1, 3) ed esso è confinato nei binari della nostra esistenza, ammettere che cotidie morimur (“moriamo ogni giorno”, Ep. 24, 20) e che cum crescimus vita decrescit (“mentre cresciamo la vita decresce, ibidem) significa aver chiaro che la vita è una cosa seria, che con la vita non si può giocare, perché è un’occasione unica. Ed è nelle nostre mani. Quemadmodum clepsydram non extremum stilicidium exhaurit sed quidquid ante defluxit, sic ultima hora qua esse desinimus non sola mortem facit sed sola consummat; tunc ad illam pervenimus, sed diu venimus (“così come l’ultima goccia non esaurisce la clessidra, ma qualsiasi goccia defluita prima, allo stesso modo l’ultima ora in cui smettiamo di esistere non da sola ci fa morire, bensì da sola completa il processo; pertanto raggiungiamo la morte, ma a lei siamo diretti da tempo”, ibidem): non dobbiamo temere la morte, dal momento che mors non una venit, sed quae rapit ultima mors est (“non una sola morte viene, ma quella che ci porta via è l’ultima morte”, Ep. 24, 21). Non dal timore ma dall’accoglienza del nostro essere morituri può scaturire lo stimolo a non sprecare nemmeno un istante della nostra vita.

Per Seneca la saggezza non si eredita dallo studio libresco, ma dall’esperienza quotidiana: si tratta di decisioni da prendere, di scelte da non rimandare, di desideri da orientare. La vita di ogni giorno costituisce quella dimensione in cui si esplica la necessità di essere, di osare, di credere. Opto tibi tui facultatem, ut vagis cogitationibus agitata mens tandem resistat et certa sit, ut placeat sibi (“ti auguro la padronanza di te, affinché la mente, turbata da pensieri ambigui, una volta per tutte si plachi e sia salda, affinché si compiaccia di sé”, Ep. 32, 5): spesso l’uomo non è, non osa, non crede perché pensa male di sé, non si sente all’altezza delle sfide quotidiane e abdica in favore dell’ansia e dell’inerzia. Che può fare dunque l’uomo per non precludersi in questo modo la felicità? Può rammentarsi di non essere solo: prope est a te deus, tecum est, intus est (“la divinità è presso di te, è con te, è dentro di te”, Ep. 41, 1). Nell’urgenza di scegliere, l’uomo può assumersi il rischio di sbagliare, perché sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrorum observator et custos (“uno spirito sacro risiede dentro di noi, osservatore e custode delle nostre azioni cattive e buone”, Ep. 41, 2). Ogni essere umano ha una vocazione: rationale enim animal est homo; consummatur itaque bonum eius, si id implevit cui nascitur. Quid est autem quod ab illo ratio haec exigat? rem facillimam, secundum naturam suam vivere (“l’uomo dunque è un animale razionale, il suo bene lo adempie solo se realizza ciò per cui è nato. Ma cosa esige da lui questa ragione? Una cosa semplicissima: vivere secondo la sua natura”, Ep. 41, 8). Spesso riteniamo che la nostra piena realizzazione rappresenti un traguardo irraggiungibile, ma le cose non stanno così: la felicità risiede nel nostro essere, siamo fatti per essa, è alla portata di quella natura secondo la quale siamo chiamati a vivere.

A questa certezza conduce la saggezza di cui parla Seneca: la vita e la felicità sono in rapporto simbiotico, giacché vivere significa necessariamente essere felici. In questo modo giungiamo al concetto di eudaimonìa: la felicità costituisce l’unico scopo dell’esistenza umana. Habes ergo et quare velis sapiens esse, si numquam sine gaudio est. Gaudium hoc non nascitur nisi ex virtutum conscientia: non potest gaudere nisi fortis, nisi iustus, nisi temperans (“hai dunque anche un perché voler essere saggio, per il fatto che il saggio non è mai privo di gioia. Questa gioia non può che essere nata dalla presa di coscienza delle proprie virtù: non può gioire se non chi è forte, se non chi è giusto, se non chi è temperante”, Ep. 59, 16). L’educazione alla virtù non può essere una prerogativa etica fine a sé stessa, ma piuttosto dovrebbe rappresentare un’esigenza da risvegliare in nome del diritto alla felicità che ogni uomo detiene. Chi aspira ad una gioia perfetta – perché solo ad una somma gioia si può essere protesi, quando la si scopre e si comprende che ogni altra gioia al confronto non sarebbe che tenue gaiezza – non può che alzare gli occhi al cielo e desiderare una divina felicità, quindi la Felicità. Solo a quella Felicità vale la pena ambire, dal momento che illud gaudium quod deos deorumque aemulos sequitur non interrumpitur, non desinit (“quella felicità che riguarda gli dei e gli emuli degli dei non si interrompe e non si consuma mai”, Ep. 59, 18).

Se nemo nisi vitio suo miser est (“nessuno è infelice se non per suo vizio”, Ep. 70, 15), allora ognuno è felice in forza della sua virtù. La felicità, dunque, è una scelta. Una scelta di vita e per la vita. Ecco a cosa serve la saggezza: a compiere questa scelta. Una volta compiuta questa scelta, ogni uomo è arrivato dove doveva arrivare: Quaeris quod sit amplissimum vitae spatium? Usque ad sapientiam vivere; qui ad illam pervēnit attigit non longissimum finem, sed maximum (“chiedi quale sia lo spazio più esteso della vita? Vivere fino alla saggezza; chi arriva ad essa raggiunge non l’ultimo traguardo, ma il più importante”, Ep. 93, 8).

Ma lungo la strada della vita, quindi della Felicità, come si comprende che si sta marciando nella direzione giusta? Dato che beata vita bonis efficitur (“la vita felice scaturisce dalle cose buone”, 124, 15), lo si potrà intuire dall’effluvio che il bene emana. E quod est hoc? animus scilicet emendatus ac purus, aemulator dei, super humana se extollens, nihil extra se sui ponens (“qual è questo bene? Un animo puro e purificato, che segue le orme della divinità, che si spinge oltre le cose umane, non gettando niente di sé al di fuori di sé”, 124, 23). Non è felice chi ride né chi se la gode, è felice piuttosto chi – consigliato dalla saggezza, padrone di sé stesso e del proprio tempo, accompagnato dalla divinità verso la divinità – risponde alla sua lieta chiamata e non si stanca mai di perseguire il bene. Tunc habebis tuum cum intelleges infelicissimos esse felices (“avrai il tuo quando comprenderai che i più infelici sono quelli che si fanno chiamare felici”, 124, 24): la felicità non si possiede, non si vede, non si fa chiamare. La felicità è. Se io sono. Vale.

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