Il concetto di evoluzione come lo sviluppo comune di un gruppo connesso di organismi per l’azione di fattori comuni all’interno dei singoli membri del gruppo, e di comuni rapporti con l’ambiente, ricevette una possente spinta in avanti dalle ricerche di Darwin, nato a Shrewsbury (Inghilterra) il 12 febbraio del 1809.
Ma prima di Darwin l’idea dell’evoluzione era comparsa più volte nella storia del pensiero.
Possiamo farla risalire assai indietro, fino ai presocratici e in particolare ad Anassimandro di Mileto, uno dei filosofi della physis (in greco antico: φύσις) assieme a Talete e Anassimene, il quale aveva affermato la concezione dell’uomo come essere naturale, l’ultimo prodotto dell’evoluzione dei viventi. L’uomo deriverebbe dalla trasformazione di pesci adattatisi a vivere in ambiente terrestre; è da notare, al di là dell’indubbio fascino di queste teorie, come Anassimandro rinunci a qualsiasi ipotesi di un diretto intervento divino. Semmai la divinità agisce nell’insieme delle forze naturali e non dispone di alcuno spazio autonomo fuori di esse.
In epoca moderna la posizione evoluzionista, in particolare durante i primi anni del Seicento, fu sostenuta con molta energia, anche se le basi scientifiche erano molto fragili, da Giulio Cesare Vanini.
Nel Settecento, in virtù del clima nuovo che si era creato con l’Illuminismo, la tesi evoluzionistica fu difesa dai philosophes in termini anticonformisti e anticlericali. All’inizio dell’Ottocento, poi, alcuni naturalisti tentarono di introdurre l’evoluzionismo nella scienza moderna, ma anche i loro sforzi trovarono parecchi oppositori e finirono per arenarsi di fronte a obiezioni per il momento insuperabili. I protagonisti di questa fase del dibattito furono tre biologi francesi: Lamarck, Cuvier e Saint-Hilaire. Soprattutto Lamarck può considerarsi il punto d’approdo delle ricerche e delle discussioni sulla natura e sul posto dell’uomo entro la natura sviluppate dall’Illuminismo.
Non per caso, Lamarck ribadisce che i viventi debbono permanere in equilibrio con l’ambiente, così che se muta quest’ultimo mutano anche quelli, altrimenti soccombono; egli, però, introduce una rilevante novità teorica, consistente nell’attribuire un ruolo attivo e decisivo all’organismo. Si può affermare, allora, che il grande merito scientifico di Lamarck sia stato quello di avere colto l’universale parentela dei viventi e stabilito che i rapporti delle varie categorie della sistematica botanica e zoologica possono essere raffigurate con una sorta di albero genealogico.
In ogni caso, però, ancora in questa fase del dibattito che si sviluppò uscirono vincitrici le posizioni “fissiste”, ma la discussione era ormai avviata e si creò comunque un ambiente assai favorevole all’accettazione di un trasformismo biologico.
Sarà Darwin a mettere definitivamente in crisi le posizioni “fissiste”, dimostrando come tutta quanta la natura organica, e quindi anche l’uomo, fossero il prodotto di un processo di sviluppo che è durato milioni di anni. La spiegazione darwiniana di tale evoluzione, ottenuta servendosi di un modello relativamente semplice e avvalorata da una grandissima quantità di dati sperimentali raccolti dallo scienziato in decenni di lavoro, inferse un colpo durissimo alle teorie creazioniste e minò alle fondamenta l’impianto teleologico fondato sull’esistenza di Dio.
E aver incluso la specie umana nel percorso evolutivo delle specie animali rappresenta una innovazione teorica talmente importante da consentire un confronto di Darwin con due soli altri grandi scienziati dell’età moderna e contemporanea: Copernico e Freud.
Copernico aveva eliminato la centralità della terra (e dunque dell’uomo) nell’universo; Darwin fa dell’uomo un animale particolarmente evoluto; Freud dimostrerà il ruolo centrale dell’inconscio nei comportamenti dell’uomo.
È impossibile anche solo immaginare cosa sarebbe l’odierna visione del mondo senza questi tre contributi scientifici.
Ma il superamento della tradizionale concezione “fissista” non mancherà di influenzare anche la visione dell’evoluzione del mondo storico e spirituale. Le scoperte di Darwin rafforzeranno la tendenza ad assumere il metodo delle scienze naturali anche nell’ambito delle scienze dell’uomo e della società. Pertanto, la necessità di una comprensione scientifica anche del divenire storico e sociale è ritenuta ineludibile.
Tuttavia, la storia dell’evoluzione della società si rivela, però, in un punto come essenzialmente differente da quella della natura. Nella natura, infatti, i processi avvengono come un gioco cieco e incosciente di azioni reciproche, senza alcuna finalità intenzionale; invece, nella storia della società gli elementi attivi sono esclusivamente degli uomini, dotati di coscienza, di capacità di riflessione e di passioni, e che perseguono scopi determinati, anche se nessun individuo singolo può far valere del tutto le sue intenzioni perché queste entrano nel gioco generale insieme alle intenzioni e alle forze degli altri. Ciò comporta che non si possono assimilare del tutto le leggi e le forze naturali (l’evoluzione della natura) e quelle storiche (l’evoluzione della società); va scongiurato, quindi, qualsiasi riduzionismo naturalistico della storia umana. Tener presente in modo organico questa duplicità di aspetti rimane ancora oggi un problema fondamentale, cui la concezione dialettica del rapporto uomo-natura (o storia-natura) possono portare un significativo contributo.
Sulla base della teoria darwiniana, che veniva messa in rapporto con la malthusiana lotta per l’esistenza, con il bellum omnium contra omnes di Hobbes e con la teoria hegeliana della società civile come regno animale ideale, si può postulare l’unità della storia naturale e umana, in intrinseca opposizione alla dottrina del grande disegno imposto da una divinità alla natura e all’uomo.
Il rapporto del genere umano con la natura è al tempo stesso la storia naturale dell’umanità: vi è una continuità ontologica tra uomo e natura e un interscambio materiale tra le due parti. Perciò non c’è che una storia universale, la storia dell’uomo e della natura. La storia naturale arriva così a sussumere la storia umana, così come la storia umana arriva a sussumere la storia naturale. Pertanto, il processo dell’evoluzione umana è a un tempo la stessa cosa e altra cosa che la generale storia umana. La storia che non facciamo noi è storia naturale, la storia dell’evoluzione del cosmo, della terra, delle specie umane ed è governata da leggi che non siamo noi a fare, e che possiamo solo scoprire, mentre la storia che facciamo noi dipende sia da queste leggi naturali che da atti e rapporti umani, e dalle leggi volontarie e coscienti, involontarie e inconscie, naturali e promulgate, da leggi manipolative, predittive e prescrittive.
Marx fu un grande estimatore di Darwin perché, a suo avviso, aveva illustrato la storia della tecnologia naturale: la selezione naturale di adattamento degli organi animali e vegetali come strumenti di produzione, stabilendo un parallelismo tra i due processi rispetto alla specializzazione, e al rapporto tra forma e funzione: così, negli organi naturali e negli strumenti di produzione umani, quanto maggiore è la specializzazione delle funzioni, tanto minori sono le possibilità di libertà nella forma dello strumento.
Alla formulazione della teoria darwiniana concorsero diverse esperienze, e fra queste soprattutto un viaggio che Darwin compì nell’America meridionale come naturalista. Nel corso della lunga e spesso pericolosa navigazione, egli raccolse moltissime osservazioni che gli sollevarono alcuni problemi riguardanti la distribuzione degli animali, l’origine della fauna, la parentela dei viventi, ecc.; la soluzione di questi problemi gli impose un riesame della nozione generale di specie, con il rifiuto della teoria creazionistica, che in Inghilterra era largamente accolta dai naturalisti.
Un altro fattore importante fu la lettura – verso la fine del 1838 – del testo di Malthus Saggio sul principio della popolazione, con il quale l’economista inglese indirizzava il pensiero classico in senso pessimistico. L’autore del “Saggio” si proponeva di ricercare la “causa naturale” che ostacolava il benessere degli uomini, lo scoglio contro il quale si infrangevano gli ideali di giustizia sociale, credendo di averlo individuato in una ineluttabile legge biologica che spinge la popolazione a crescere più rapidamente dei mezzi di sussistenza. Malthus credette, quindi, di poter dedurre che in virtù della “forza generativa naturale” la specie umana tende a crescere “in progressione geometrica”, la popolazione cioè tende a raddoppiare a ogni generazione, mentre i mezzi necessari per la sopravvivenza, anche nel caso più favorevole di un ritmo costante di progresso delle tecniche agrarie, crescono in progressione aritmetica. Fra popolazione e mezzi di sussistenza viene a crearsi un divario che la natura tende a colmare con i tragici freni repressivi – guerre, epidemie, mortalità infantile – che aumentano la mortalità. Malthus coglie, seppure filtrato da un forte conservatorismo, un tema storiografico essenziale: il rapporto tra popolazione e risorse, tra produzione e consumo.
È certo, comunque, che la lettura del saggio di Malthus rafforzò in Darwin la persuasione dell’importanza della lotta per l’esistenza come fenomeno che coinvolge la natura vivente.
Nell’introduzione all’Origine delle specie, quest’ultimo aveva addirittura definito la sua teoria dell’evoluzione naturale un’applicazione della dottrina di Malthus a tutto il regno vegetale e animale. La lotta per l’esistenza tra tutti gli esseri viventi veniva fatta discendere da Darwin dalla rapidità del loro accrescimento in proporzione geometrica. Al di là del carattere forzato di tale applicazione al campo della biologia di una dottrina riguardante il rapporto tra popolazione e risorse nell’ambito delle società umane, l’utilizzazione darwiniana di Malthus è senz’altro interessante per cogliere i risvolti sociali e politici dell’opera di Darwin; quest’ultimo coglie il significato della realtà sociale del capitalismo inglese mostrando come la libera concorrenza e la lotta per l’esistenza che gli economisti classici inglesi esaltavano come il più alto prodotto storico dell’umanità costituissero in realtà lo stato normale del regno animale.
Pur avendo sempre evitato di volgersi allo studio delle leggi del divenire storico-sociale, almeno indirettamente Darwin finiva così per fornire strumenti al cosiddetto “darwinismo sociale” – su cui mi soffermerò tra poco – ovvero a quelle correnti del pensiero sociale e politico che non esiteranno a usare il metodo scientifico darwiniano per giustificare come “naturali” e perciò stesso immodificabili ogni forma di oppressione e di diseguaglianza sociale. Paradossalmente la storicizzazione della natura finiva per aprire la strada all’interpretazione biologica dei fenomeni sociali ovvero a quella che potremmo definire una naturalizzazione della storia. Ciò che spiega la diffusione nell’ambito delle correnti intellettuali di stampo conservatore della teoria dell’evoluzione. Di qui le interpretazioni in chiave “aristocratica” e reazionaria del principio della lotta per l’esistenza. Eppure, al congresso di Monaco dei Naturalisti tedeschi del settembre 1877 il dibattito sulle teorie di Darwin avrebbe visto i suoi sostenitori polemizzare con quanti rifiutavano la teoria evoluzionistica come possibile base teorica dell’egualitarismo socialista: in polemica con Virchov, convinto che il darwinismo conducesse direttamente al socialismo, il grande scienziato Haeckel sottolineava come la teoria della selezione insegnava come, sia nella vita dell’umanità che in quelle degli animali e delle piante, solo una minoranza privilegiata arrivi a crescere e a svilupparsi e come l’immensa maggioranza sia destinata a soffrire e soccombere.
La conclusione a cui giunge Darwin è la seguente: le specie animali e vegetali non sono fisse e immutabili; al contrario, esse rappresentano il risultato di un lungo processo evolutivo che, a partire da una o pochissime forme originarie, ha dato vita alle specie di cui i fossili ci documentano l’esistenza, le quali a loro volta hanno generato le specie attuali. Le somiglianze tra le specie sono dovute al fatto che esse provengono da un antenato comune. È appena il caso di ricordare come questa esposizione del fatto dell’evoluzione andasse contro pregiudizi e abitudini radicati nella storia del pensiero occidentale almeno a partire da Aristotele, e ribadite dalla religione cristiana.
Non meno innovativa è però la spiegazione darwiniana del meccanismo dell’evoluzione. Su questo punto Darwin non è persuaso dell’impostazione di Lamarck: né l’azione dell’ambiente né la volontà degli organismi gli sembrano buoni principi esplicativi. Per un verso, infatti, Darwin nutre seri dubbi sul fatto che l’ambiente eserciti un’azione diretta sulla variazione dei caratteri delle specie; ma, soprattutto, egli ritiene che la “tendenza interna” al perfezionamento non possa in alcun modo dare ragione degli incredibili fenomeni di adattamento che ci è possibile osservare negli esseri viventi. Il modello esplicativo che Darwin contrappone a quello di Lamarck muove da un assunto tanto semplice quanto innovativo: le differenze tra gli individui di una specie non sono volute da una provvidenza o da una forza vitale, ma sono determinate soltanto dal caso (ossia dalla cieca necessità naturale). In altre parole, il primo attore dell’evoluzione è la “variabilità naturale”, in forza della quale individui di una stessa specie sono differenti tra loro. Le cause di queste variazioni interne a una stessa specie sono però ignote a Darwin (esse sono regolate da leggi che verranno poi scoperte dalla genetica del XX secolo).
L’evoluzione delle specie può, però, prodursi solo in quanto entra in azione un secondo attore: la “selezione naturale”. Quest’ultima interviene favorendo, tra i diversi individui di una specie, quelli più adatti all’ambiente in cui vivono; soltanto questi individui fortunati vincono la “lotta per l’esistenza”, ossia sopravvivono, e sono in grado di generare dei discendenti, mentre gli altri scompaiono. Gradatamente, col variare delle condizioni ambientali, o con la migrazione di componenti di una specie in zone diverse, mutano i criteri selettivi, e la specie dà origine a razze diverse. Impercettibilmente, nel corso di migliaia e migliaia di anni, da un unico ceppo prendono origine specie diverse, vecchie specie scompaiono e sono sostituite da altre più adeguate al loro ambiente.
Ma il potenziale eversivo delle teorie di Darwin non si esauriva qui.
Nell’Origine delle specie Darwin accennò a un altro argomento “scandaloso”: la discendenza della stessa specie umana da antenati animali. La questione fu affrontata in maniera diretta per la prima volta non da Darwin, ma da un suo seguace, Thomas Henry Huxley: questi sostenne la discendenza dell’uomo da antenati scimmieschi (e non, come spesso tuttora si ripete, dalle attuali scimmie). Infine, nel 1871, lo stesso Darwin pubblicò “L’origine dell’uomo”. In questo libro lo scienziato inglese sosteneva esplicitamente che la mutevolezza delle specie coinvolge anche la specie umana, e mostrava le prove a favore di una discendenza della specie umana da antenati simili alle scimmie attuali. Il luogo di origine della specie umana era individuato da Darwin in Africa. Se “L’origine delle specie” ci aveva presentato un mondo della vita non più invariabile e fondato sui disegni di un creatore, ma al contrario in divenire nel tempo secondo i semplici meccanismi delle leggi naturali, ora “L’origine dell’uomo” pone fine all’antropocentrismo, ossia a quelle posizioni che vedevano nell’uomo il re del creato, separato dagli altri animali come da un abisso.
Un ultimo aspetto degno di nota dell’”Origine dell’uomo” consiste nel trasferimento del concetto di selezione naturale dal piano individuale a quello sociale: in questa opera, infatti, Darwin applica il concetto della selezione naturale alla competizione e alla lotta tra gruppi di uomini e società. Si può dire che questa applicazione alla società umana della ‘selezione naturale’ e della lotta per l’esistenza costituisca per la teoria di Darwin una sorta di ‘ritorno all’origine’.
Come ho già detto, lo spunto originario della lotta per l’esistenza era stato offerto allo scienziato inglese dalle teorie di Thomas Malthus (1766 – 1834), il quale, tra l’altro, nel suo “Saggio sul Principio di popolazione” aveva giudicato negativamente le leggi sociali a favore dei poveri, in quanto esse avrebbero favorito l’aumento della popolazione. Spostando il discorso di Malthus sul piano naturale, il Darwin dell’Origine delle specie aveva sostenuto che la lotta per l’esistenza nel regno animale deve aver luogo proprio perché vengono generati più individui di quanti possano sopravvivere: infatti, se tutti gli individui generati da una determinata specie sopravvivessero, “per la legge dell’accrescimento geometrico”, il loro numero “diverrebbe rapidamente così grande che nessun paese potrebbe mantenerlo”.
Vediamo, dunque, che le novità introdotte dal darwinismo nella concezione moderna del mondo vanno evidentemente ben al di là del campo biologico. La più rilevante è forse costituita dalla costruzione di un modello di spiegazione dell’evoluzione che esclude qualsiasi considerazione finalistica della natura stessa. Proprio questa novità è all’origine dei tentativi di opporre alla teoria darwiniana altre spiegazioni dell’evoluzione (quanto al fatto dell’evoluzione medesima, infatti, esso apparve, in seguito all’”Origine delle specie” e ai nuovi dati sperimentali via via acquisiti dai ricercatori, ben difficile da negare). In particolare, ancora nel XX secolo non sono mancati seguaci del lamarckismo che hanno insistito soprattutto sull’importanza della tendenza interna al perfezionamento propria degli esseri viventi: tale ipotesi, infatti, consente di tenere aperta una porta alle concezioni finalistiche della natura. Va però detto che questi tentativi, non essendo avvalorati da riscontri sperimentali, non hanno incontrato molto successo.
Ma le polemiche sul valore scientifico e sul carattere eversivo e addirittura “blasfemo” delle teorie darwiniane non tardarono a scoppiare violente. E in tal senso un ruolo centrale fu giocato da Huxley, che non si limitò a difendere Darwin e anzi fu tra i primi a sostenere che la prospettiva evoluzionistica avrebbe consentito un’unificazione delle scienze, permettendo tra l’altro una completa “naturalizzazione” della storia dell’uomo e della società umana. Peraltro, Huxley si oppose sempre al cosiddetto “darwinismo sociale” e fu molto deciso nel negare che la sopravvivenza del più adatto potesse costituire un modello anche per l’interpretazione delle società umane; egli spiegò, infatti, che quella formula può valere per le forme più rudimentali di civiltà, mentre con lo sviluppo delle società il loro modo di funzionamento si discosta progressivamente da quello dell’evoluzione naturale, dando sempre maggior spazio e importanza alle istanze e ai comportamenti morali.
Con Herbert Spencer l’evoluzionismo diventa il cardine di un sistema filosofico e di una cosmologia. Infatti, quasi contemporaneamente alla nascita dell’evoluzionismo scientifico, l’Inghilterra vide sorgere – a opera di Herbert Spencer – un evoluzionismo filosofico. Il primo germe delle concezioni spenceriane è precedente alla pubblicazione dell’Origine delle specie, ma non esercitò alcun influsso sulla teoria darwiniana.
Alla filosofia, secondo Spencer, spetta la funzione di connettere le spiegazioni sintetiche parziali fornite dalla scienza, dando luogo a un sapere unificato. La filosofia è quella forma di conoscenza che presenta il più alto grado di generalizzazione, in quanto individua in tutti i fenomeni del reale la stessa legge generale dell’evoluzione.
Le applicazioni sociali del darwinismo hanno dato vita a grossi dibattiti, visto che le chiavi di lettura possono portare, come abbiamo già detto, a conclusioni opposte.
Vediamo qui, infatti, la netta antitesi fra progresso e reazione che può scaturire dal richiamo al darwinismo. Pertanto, la linea fondamentale tracciata per un certo periodo dalle scienze ufficiali (si può dire borghesi?!) è antidarwiniana. Ma nel momento in cui la dottrina dell’armonia e quella crescita organica si rivelano insufficienti visto l’aggravarsi delle contraddizioni della società sempre più avanzata e conflittuale al tempo stesso, gli aspetti inumani non possono più essere negati e taciuti, ma debbono essere presi necessariamente come punto di partenza dell’apologetica della società, che così si vuol condurre ad accettare e addirittura approvare come elementi immodificabili, naturali ed eterni: “l’uomo non è cambiato nel corso della storia”, affermano coloro che si richiamano al darwinismo sociale. Ma ciò avviene quando il darwinismo viene ridotto a semplice frase, svuotato del suo impianto scientifico, e utilizzato per scopi prettamente ideologici. Infatti, ai molti che avevano salutato positivamente il darwinismo in quanto favoriva una concezione storica della natura, altri si servivano del darwinismo, ridotto a pura frase, per escludere lo storicismo dalle scienze sociali. Viene adottata una visione sociologica nella quale scompaiono le categorie economiche e le classi, facendo subentrare al loro posto “la lotta per l’esistenza fra le razze”. Inoltre, tutto ciò che riguarda l’ineguaglianza, l’oppressione, lo sfruttamento, ecc., viene presentato come “fatti naturali”, come “leggi di natura”, come “inevitabili e ineliminabili”. In pratica, auspica la rassegnata sottomissione dell’uomo alle leggi naturali che dominano uniche e sole nella storia, di fatto soppressa con questo preteso metodo scientifico. E tra i tanti pensatori che potrei citare, mi sembra utile richiamare per queste tematiche, vista la sua importanza, Friedrich Nietzsche.
Nella seconda metà dell’Ottocento, il darwinismo sociale sorse come un’ideologia destinata a servire come base all’interpretazione reazionaria degli eventi perché i pensatori interessati scelsero un metodo che non conduceva all’indagine concreta dei fenomeni, ma anzi allontanava da questa conoscenza concreta, perché la “legge universale” della “lotta per l’esistenza” spiegava allo stesso modo qualsiasi avvenimento in qualsiasi periodo, vale a dire non spiegava nulla.
Ancora oggi ci sono aspre polemiche per stabilire se e in che misura si debba considerare Nietzsche un darwinista.
Il carattere fondamentalmente arbitrario della sua piattaforma “naturalistica” si manifesta in lui con una franchezza perfino cinica. Ne La gaia scienza egli fa dell’ironia sul darwinismo a causa del suo (presunto) carattere plebeo “Tutto il darwinismo inglese respira l’aria mefitica dei luoghi sovrappopolati d’Inghilterra, un odore di gente in angustia e in miseria” Questo ironico argomento non fa però che introdurre il motivo principale dell’avversione per tale dottrina ”La lotta per l’esistenza non è che un’eccezione, una momentanea restrizione della volontà di vivere; la grande e piccola lotta si svolge ovunque per la preponderanza, per lo sviluppo e per l’espansione; si svolge per la potenza conformemente alla volontà di potenza, che è appunto volontà di vivere”.
Per concludere questa parte, si può dire che Nietzsche dà una interpretazione mitica delle categorie scientifiche, proietta i principi fondamentali della sua filosofia della società nei fenomeni della natura, e poi da questi li ritrae per dare alle sue costruzioni un solido sfondo “cosmico” come manifestazioni di una legge generale dell’universo. Così scrive in Al di là del bene e del male: “[…] la vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione nei confronti dell’estraneo e del più debole, oppressione, rigore, imposizione delle proprie forme, assimilazione e almeno, nel caso migliore, sfruttamento…che appartiene all’essenza del vivente come funzione organica fondamentale; è una conseguenza della vera e propria volontà di potenza, che è la volontà stessa della vita”.
Ben diversa la lettura di Darwin che in quegli stessi anni proponevano scienziati e intellettuali progressisti nel dibattito europeo.
La natura è in costante movimento, in costante trasformazione, e in essa si svolge una lotta, la lotta per l’esistenza attraverso la quale potranno affermare per un certo periodo le proprie forme soltanto quegli individui che sono in grado di sviluppare organi particolari per proteggersi contro quelle influenze esterne che minacciano l’esistenza dell’individuo e per sostituire quegli elementi che esso deve costantemente cedere al mondo esterno. Il processo ininterrotto di adattamento degli organismi all’ambiente esterno genera attraverso la lotta per l’esistenza una crescente divisione dei compiti. Quanto più la divisione è progredita in un organismo, tanto più perfetto esso ci appare. Uno sviluppo ulteriore subentrerà soltanto dal momento in cui l’ambiente si modifichi notevolmente, la natura inorganica subisca dei mutamenti che disturbino lo stato di equilibrio di quella organica.
Questi mutamenti portano con loro la necessità di rinnovati adattamenti ai rapporti mutati; producono migrazioni che trasferiscono gli organismi in nuovi rapporti e determinano intensificate lotte per l’esistenza, che eliminano gli individui e i tipi che si sono male adattati o sono incapaci di adattarsi, creano nuove divisioni del lavoro, nuove funzioni, nuovi organi o trasformano quelli vecchi.
Ogni divisione del lavoro determina una certa unilateralità.
Le due facoltà del movimento autonomo e della conoscenza sono dunque inseparabili come armi nella lotta per l’esistenza, e diventano armi nella lotta per l’esistenza soltanto se con esse interviene in pari tempo un impulso alla conservazione. L’istinto di conservazione è il più originario degli istinti animali ed anche il più indispensabile.
Da un dato grado di sviluppo, perciò, la selezione naturale, attraverso la lotta per l’esistenza, deve sviluppare un deciso istinto di riproduzione nel mondo animale e rafforzarlo sempre più. Peraltro, la convivenza di individui della stessa specie, che è la forma originaria della vita sociale, è anche la forma originaria della vita in generale. La massa degli organismi della stessa specie, conviventi in una località determinata, non può superare un certo numero, dato che ogni località può dare soltanto una determinata quantità di alimenti.
Con la divisione del lavoro, l’unione degli individui diventa un corpo con diversi organi per una collaborazione conforme ad un fine: e questo fine è la conservazione del corpo nella sua totalità: l’unione diventa un organismo. Con ciò, tuttavia, non è detto che il nuovo organismo, la società, sia un corpo allo stesso modo che un animale o una pianta; esso è invece un organismo di tipo particolare, diverso da tutt’e due, assai più di quanto l’animale sia diverso dalla pianta. Comunque, come l’organismo animale, anche quello sociale potrà resistere tanto meglio nella lotta per l’esistenza quanto più i suoi movimenti sono unitari, quanto più solida è la sua coesione e quanto più grande è l’armonia delle sue parti. La sua unitarietà e armonia, così come la sua coesione, possono nascere soltanto dalle azioni e dalle volontà dei suoi membri. Questa volontà unitaria sarà però tanto più garantita quanto più essa nasce da un forte istinto. E gli istinti possono essere diversi a seconda delle diverse condizioni di vita delle diverse specie, ma una serie di istinti forma la condizione preliminare per la prosperità di qualsiasi tipo di società.
Così l’altruismo, la dedizione all’universalità; quindi, il coraggio nella difesa degli interessi comuni; la sottomissione alla volontà della totalità e quindi l’obbedienza o ‘disciplina’; infine l’orgoglio, la sensibilità per la lode e il biasimo della comunità. La suprema legge morale nelle società animali è cosa ovvia: soltanto lo sviluppo della società umana ha creato delle condizioni nelle quali un membro della società ha potuto diventare semplice strumento di altri.
In conclusione, il naturalismo darwinista poneva alla cultura europea del tempo il grande problema del rapporto tra natura e storia, tra necessità e libertà: non era più possibile dopo di esso stabilire tra questi termini un rapporto di mera discontinuità.
L’essere sociale dell’uomo ritrovava con Darwin il suo fondamento naturale; e tutto ciò spinse le scienze storico-sociali a definire su basi assolutamente nuove, né idealistiche in senso tradizionale, ma neanche ingenuamente naturalistiche, il loro metodo di ricerca e di indagine.
Anche grazie a Darwin, per una sorta di eterogenesi dei fini, la concezione della dialettica della storia si emancipava da ogni visione teleologica del progresso storico e fondava su basi più rigorosamente immanentistiche la stessa libertà dell’uomo.