Cinquant’anni fa, il 21 maggio 1973, chiudeva per sempre gli occhi su questo mondo estremamente ingarbugliato, ordinato e disordinato allo stesso tempo, traumatizzato ed esasperato dagli avvenimenti che vi succedono un grande nome della nostra meravigliosa letteratura italiana, complessa per ricchezza di elementi che si intrecciano continuamente tra loro da circa mille anni, Carlo Emilio Gadda, ingegnere prima che scrittore e poeta che – come ha scritto il professor Pietro Salvatore Reina nel 2021 su Il Salto della Quaglia nell’articolo Carlo Emilio Gadda. Il signore della prosa – “media, come un nuovo Aristotele e/o Galileo, fra un’innata vocazione letteraria e la formazione scientifica”.
Ufficiale della Prima guerra mondiale prima e professore di matematica e fisica poi, Gadda ebbe natali milanesi (14 novembre 1893), ma la morte lo accolse nella capitale dove venne anche sepolto. La sua tomba si trova nel cimitero acattolico dal cui terreno una lapide emerge mostrando prepotentemente a chiunque passi di là un’incisione su pietra: “Qui nel cuore antico e sempre vivo di sogni e d’utopie Roma dà asilo alle spoglie di Carlo Emilio Gadda. Geniale e studioso artista dalle forti passioni morali e civili. Signore della prosa”.
Eccelso ingegnere e, dal 1926, collaboratore della fiorentina rivista letteraria Solaria (1926-1936), Gadda ebbe sempre la passione per la letteratura e per la cultura classica tanto che nel 1924 – quindi dopo la prima laurea – si iscrisse alla facoltà di filosofia senza però mai laurearsi nonostante avesse già concordato il titolo della sua tesi: I Nouveaux Essais sur l’entendement humain di Leibniz.
Per tutta la vita l’Autore indirizzò la sua attenzione allo studio della lingua in sé attraverso la quale egli ha raccontato un mondo fatto di caos. D’altra parte anche il grande pandemonio generato dalle persone che vivono questo sregolato pianeta viene rappresentato dal poeta milanese attraverso un linguaggio particolarissimo e personalissimo, curioso, originale, sonoro, plurimo, irripetibile, innovativo e antico allo stesso tempo, estremamente espressivo, a tratti provocatorio, un linguaggio che viene fuori dall’intreccio di svariati linguaggi a loro volta e che per certi versi ha caratterizzato la nostra cara narrativa novecentesca, un linguaggio detto proprio, e non a caso, gaddiano o altresì plurilinguismo gaddiano. Proprio per questa sua facoltà unica e veramente straordinaria, lo scrittore Italo Calvino (1923-1985) riteneva che Gadda, che ha cercato fedelmente di portare in letteratura un mondo parecchio dinamico ed eterogeneo così com’è nella realtà, fosse tra quelli che hanno segnato il moderno romanzo italiano del Novecento. Il linguaggio gaddiano è in effetti qualcosa di eccezionale e di attraente perché, secondo il pensiero dello stesso scrittore milanese, riesce a descrivere la verità oggettiva del nostro mondo fatto di molteplici sfaccettature che non possono essere espresse e descritte con una sola lingua, con un solo codice o stile linguistico, infatti a prova di ciò nelle sue opere Gadda fa uso di moltissimi sinonimi, di termini filosofici e di quelli scientifici, ricorre spesso agli ispanismi, a errori grammaticali volutamente fatti, al lessico dei dialetti come il milanese, il fiorentino, il romanesco, il napoletano, il molisano, il veneziano e attinge ad altre lingue oltre alla nostra come il francese, l’inglese, lo spagnolo e il tedesco. Utilizza altresì lingue antiche e si avvale di citazioni della letteratura latina soprattutto del veronese Catullo (84 a.C. – 54 a. C.).
Gli studiosi di Gadda – che gli riconoscono il primato della nuova stilistica italiana – fanno presente che nei suoi testi il lettore si imbatte sicuramente in una punteggiatura fuori dalla norma; in deviazioni di senso; incontra moltissimi attributi, arcaismi, vocaboli aulici e incisi. Inoltre Gadda inventa neologismi, adopera metafore, doppi sensi, allusioni, strani paragoni e non solo. Difatti molteplici sono i suoni linguistici provenienti dal parlato dell’uso vivo e del gergo che rendono certamente unica l’opera che lo ha reso famoso, un giallo che non ha soluzione come tante cose nella vita di un uomo o di una donna nel mondo reale: “Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana” del 1957. Il clamore che seguì la pubblicazione della suddetta opera letteraria, ambientata nella Roma del ‘27, provocherà grande sorpresa in Gadda che, vedendosi inaspettatamente al centro dell’attenzione dei critici letterari, scriverà con autoironia e soddisfazione: “Sono diventato una specie di Lollobrigido, di Sofìo Loren, senza avere i doni delle due impareggiabili campionesse”.
Redattore per la RAI delle “Norme per la redazione di un testo radiofonico” e definito ingegnere della letteratura, Carlo Emilio Gadda fu un grande stimatore di Alessandro Manzoni, lo amava così tanto che, si dice, sul letto di morte volle che gli si leggessero pagine tratte da scritti manzoniani. Il saggista Pietro Citati (1930-2022), in un intervento del 2012 – in occasione delle celebrazioni a Milano per i 120 anni della nascita di Gadda – disse di aver letto allo scrittore morente l’ottavo capitolo de I promessi sposi provocando in lui uno splendido sorriso: “Allora pensai che la letteratura è una cosa bellissima se conserva la vita quando la vita non riesce a conservarsi. Essa fa ridere di gioia in punto di morte”. Fu talmente grande l’ammirazione di Gadda per l’Autore de Il cinque maggio che scrisse: “Egli disegnò li avvenimenti inavvertiti: tragiche e livide forme di una società che il caso trascina per un corso di miserie senza nome… Scrittore degli scrittori… Volle che il suo dire fosse quello che veramente ognuno dice, ogni nota della sua molteplice terra, e non la roca tromba d’un idioma impossibile, che nessuno parla, che nessuno pensa, né rivolgendosi a sé, né alla sua ragazza, né a Dio”. Nel 1983 esce postumo per Einaudi un primissimo romanzo di Carlo Emilio Gadda dal titolo Racconto italiano di ignoto del novecento. Cahier d’études – Quaderno di studi a cura del critico letterario Dante Isella (1922 -2007) in cui, dalla pagina 228, comincia la famosa difesa del Manzoni da parte di Gadda – Apologia manzoniana – che però fu pubblicata per la prima volta nel 1927 sulla rivista Solaria in forma di saggio. Gadda crede che Manzoni sia stato colui che per primo ha osservato la lingua vera, quella dell’uso vivo, quella cioè usata dai parlanti sena filtri, per così dire, letterari; una lingua dinamica, non statica, anzi che cambia di continuo e che cambia da parlante a parlante. Ammira Manzoni perché Egli è riuscito a ritrarre in letteratura lo spirito di realtà soprattutto degli umili. Così a conferma di ciò Gianfranco Contini, filologo e critico letterario (1912 – 1990), ci parla di un Gadda propriamente detto manzoniano. Oltre al domese, un altro studioso che si è interessato a Carlo Emilio Gadda e al suo stile linguistico è stato Giacomo Devoto (1897 – 1974), specialista di glottologia e dialettologia. Quando si parla di Gadda, certamente non si può non parlare del suo modo di scrivere, del suo plurilinguismo, ma anche e soprattutto del suo pluristilismo, in cui ci si trova davanti a quel fenomeno che in letteratura viene chiamato pastiche giacché nell’autore de La cognizione del dolore – a rinforzo di quanto detto sopra – ci si imbatte in parlate diverse, in diversi linguaggi e nei dialetti ai quali lo scrittore dà spazio ed estrema importanza. Così, infatti, rispose al microfono del giornalista che gli chiese spiegazioni sull’uso nei suoi libri della lingua che si mischia ad espressioni dialettali (la trasmissione è del 1962 e si intitola Il seguito del pasticciaccio di Alberto Ciattini): “Sono certamente un tentativo, qualche volta felicemente riuscito, di accostarsi alla realtà espressiva del popolo di cui facciamo parte”. Assai intelligente e acculturato, uomo curioso di grande spessore con una forte personalità, Carlo Emilio Gadda è stato senza dubbio alcuno un esperto che ha saputo giostrare la relazione tra norma e uso della lingua e che ha saputo magistralmente adoperare nei suoi scritti le varianti sociolinguistiche: distratica, diatopica, diafasiaca, diacronica, diamesica.
Finiamo con la lettura del pastiche in una piccolissima parte del romanzo giallo di cui il protagonista è il Commissario Francesco Ciccio Ingravallo: “Nel caso nostro, nel novello ravage comportato da un troppo focosa reminiscenza degli antichi bastoncelli (i quali, semmai, bastoncellavano a sensi di legge, non a sensi di teppa), il telefono si ritrovò bell’e impiantato a prestare, alla tripotente camorra, gli uffici eminenti d’un ufficiale portaordini controllato dallo zelo e dagli orecchi ipersensibili di un ufficiale spia. La raccomandazione burocratica poté assumere quel tono, e, più, quel carattere duramente ingiuntivo o addirittura imperatorio che solo si addiceva agli «homines consulares», agli «homines praetorii» del neo-impero in cottura. Chi è certo d’aver ragione a forza, nemmeno dubita di poter aver torto in diritto. Chi si riconosce genio, e faro alle genti, non sospetta d’essere moccolo male moribondo, o quadrupede ciuco”.