Io e Michele Naccari, prima colleghi alla Publifoto e poi soci a Studio Camera, una vita al servizio del fotogiornalismo, quando avveniva un omicidio, specialmente se di mafia, andavamo almeno in due. Il motivo c’era. Si trattava di riprendere la scena del delitto da almeno due angolazioni; campo e controcampo si chiama in termini tecnico – fotografici. Quella mattina del 29 aprile del 1995 questo facemmo. Si trattava di andare a fotografare l’omicidio di Gaetano Buscemi, un mafioso del clan dei “Di Peri” di Villabate, contrapposti ai corleonesi di Totò Riina. Quella mattina arrivammo con le nostre “Vespe” in una stradina che correva parallela sotto alla superstrada Palermo – Sciacca, una strada di servizio poco trafficata. C’era il cadavere di un uomo incaprettato e abbandonato proprio in mezzo la stradina. Facemmo il servizio fotografico, con una manovra a “tenaglia”. Se guardate bene la foto di fronte c’è Michele che sta scattando in contemporanea a questa foto mia che pubblico. La sua è venuta molto meglio, lui aveva una visuale migliore, infatti la foto del suo controcampo è esposta nella “Macelleria Palermo”, questa mostra itinerante che va in giro per l’Italia a raccontare che la mafia è solo orrore e morte e che a breve avrà la sua decima edizione a Carini, in provincia di Palermo. Un omicidio come tanti questo di Gaetano Buscemi in quel periodo nel palermitano. Ordinaria amministrazione oserei direi. Ma dopo qualche anno, grazie alle “cantate” dei pentiti di mafia, si sveleranno retroscena terribili e raccapriccianti. Leggete, se volete, la storia di questo “soldato” di mafia. Dopo che lo avrete fatto ne rimarrete sconvolti e lo ricorderete per tutta la vita, così come è accaduto a me.
Gaetano Buscemi ufficialmente era un fioraio, ma in realtà era un malavitoso agli ordini del boss di Villabate Giuseppe Di Peri, venne prelevato dagli uomini del boss Leoluca Bagarella e portato in un grande capannone in via Messina Montagne. Li lo torturarono e lo interrogarono per ore. Bagarella lo incalzava, voleva sapere tutto sulla famiglia Di Peri. Gli misero una corda al collo. Buscemi era terrorizzato, ma era lucido. Sapeva che la sua sorte era segnata e che non avrebbe avuto la minima possibilità di salvarsi la vita; mise allora sul piatto della bilancia l’unica richiesta che forse poteva essere accolta. Si disse disponibile a raccontare loro tutto quello che sapeva a patto che il suo cadavere non venisse sciolto nell’acido, che almeno sua moglie e i suoi figli potessero avere una tomba su cui piangere. L’interrogatorio andò avanti così fino a sera inoltrata, fin quando Bagarella capì di non poter cavare più niente da quel povero cristo e tirò la corda. Il corpo di Buscemi venne legato, caricato su un furgoncino Fiat Fiorino e abbandonato in una strada isolata di Villabate, con ancora la corda al collo. Bagarella, da uomo d’onore, era stato ai patti. Aveva rispettato l’accordo con il condannato e, a modo suo, consegnò il suo cadavere alla famiglia.