L’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa

Articolo di Franco Lannino

Alle ore 21 del tre settembre del 1982, il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa uscì da Villa Whitaker, sede della prefettura, a bordo di una Autobianchi A112 color sabbia, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, per andare a cenare in un ristorante di Mondello.

La A112 era seguita da un’Alfa Romeo Alfetta blu guidata dall’agente di scorta Domenico Russo. Alle 21.15 mentre passavano da via Isidoro Carini, una moto Honda di grossa cilindrata, guidata da Giuseppe Lucchese (‘U Lucchisieddu) che aveva dietro suo zio Giuseppe “Pino” Greco (detto Scarpuzzedda), affiancò l’Alfetta di Russo e la colpì con una raffica di mitra modello AK-47. Pochi metri più avanti ed in contemporanea una Bmw serie 5, guidata da Calogero Ganci con a fianco Antonino “Nino” Madonia, raggiunse la A112 e Madonia aprì il fuoco contro l’auto usando sempre un fucile d’assalto AK-47. L’auto del prefetto sbandò, e si andò a fermare lentamente contro il posteriore di una Fiat Ritmo parcheggiata sul lato sinistro della strada. Una seconda vettura, con a bordo Francesco Paolo Anzelmo e Giuseppe Giacomo Gambino, chiudeva il convoglio di morte, pronta a intervenire per bloccare una eventuale reazione dell’agente di scorta. Pino Greco scese dalla Honda e girando attorno all’auto del prefetto crivellata di colpi, si assicurò che il “lavoro” fosse stato ben eseguito. Non ci fu bisogno di assestare alcun colpo di grazia.

Il commando si dileguò nell’oscurita delle strade di Palermo. L’auto e la moto servite per il delitto vennero portate in un luogo isolato e date alle fiamme mentre gli assassini vennero portati via da tre auto guidate rispettivamente dai boss Raffaele Ganci (padre di Calogero), Gaetano Carollo e Vincenzo Galatolo. Il generale Carlo Alberto Dalla chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro morirono sul colpo, mentre mentre l’agente Domenico Russo morì dodici giorni dopo a causa delle ferite riportate. La mattina dopo nel luogo esatto dell’eccidio apparve un cartello vergato a mano e posto da un anomimo cittadino che recitava “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”.

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