L’orto americano ci riporta alle atmosfere gotiche de La casa dalle finestre che ridono, girato in uno stupendo bianco e nero (fotografia del grande Cesare Bastelli), montato con la giusta suspense da un regista horror come Ivan Zuccon (107′ necessari) e accompagnato da una suggestiva colonna sonora di Stefano Arnaldi. Un film che mostra ancora una volta il tocco di Avati, tutto il suo stile, tra genere e letteratura, fantastico e minimalismo, suggestioni del passato e inquietante presente. Si parte da Bologna – città del cuore – nel 1945, in un’Italia appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, un ragazzo nel negozio di un barbiere vede una giovane ausiliaria statunitense e in un solo istante se ne innamora. Scopriamo che il ragazzo parla con i morti, non ha una psicologia stabile, molti lo ritengono squilibrato e viene internato per un certo periodo in manicomio, ma è anche uno scrittore con il sogno americano e appena possibile (nel 1946) si reca nello Iowa (l’America di Pupi Avati è quella, da sempre) grazie a uno scambio di case. Il caso vuole che la sua vicina sia la madre della giovane ausiliaria che l’aveva fatto innamorare, una ragazza chiamata Barbara scomparsa nel niente, che dall’Italia non ha mai fatto ritorno. L’orto americano è quello della vicina, dove nottetempo il ragazzo si reca per scavare, dopo aver sentito le voci dei morti, e tira fuori un contenitore di vetro con i genitali di una donna e come etichetta una misteriosa iscrizione. Il giovane scrittore torna in Italia, tra Ferrara e Comacchio, per dipanare il mistero di Barbara e ritrovare almeno il corpo della giovane ausiliaria scomparsa. Il mistero ha inizio e si risolve proprio tra le lande sperdute delle Valli di Comacchio, luogo avatiano per eccellenza, dove il ragazzo partecipa come spettatore al processo a carico di un losco individuo che avrebbe trucidato tre donne, forse anche la sua Barbara. Non tutto è come sembra, il resto va apprezzato in sala, perché siamo in presenza di un vero e proprio giallo hitchcockiano ambientato tra Roma, Ferrara, Ravenna, Forlì, senza dimenticare Davenport nello Iowa, altro luogo da sempre caro al regista. L’orto americano non è cinema horror, ma ci sono tutte le suggestioni del cinema di Avati prima maniera, ricreate grazie agli effetti speciali del grande Sergio Stivaletti (le vulve, gli arti amputati, il morto nella bara che si contorce…). Un film definibile come thriller nero, angosciante e macabro, molto gotico, vicino solo al cinema dello stesso Avati, con la sua poetica del puro che possiede poteri soprannaturali incomprensibili per la gente comune. Parlare con i morti, ascoltare le voci dei morti, croce e delizia dell’esistenza del giovane scrittore, condannato a non essere creduto e a essere considerato un folle. Molto bravo Filippo Scotti nei panni del protagonista, intensa Rita Tushinghan come madre di Barbara; troviamo nel cast presenze consuete del cinema di Avati come Massimo Bonetti (il giudice) e Chiara Caselli (Doris, la padrona della pensione ferrarese), ma anche Nicola Nocella che è un paziente del manicomio. Breve cameo per Andrea Roncato come maresciallo dei Carabinieri, incredulo di fronte al racconto del giovane scrittore. Ricordiamo anche il cantautore Cesare Cremonini in una piccola parte. La sceneggiatura non perde un colpo, tra lo Iowa e Comacchio, con il sottile collante dei reperti anatomici rinvenuti nella boccia di vetro, scritta dal regista e dal fratello Tommaso, partendo dal romanzo omonimo edito da Solferino. Molto azzeccata l’idea di far recitare in inglese la parte americana, sottotitolando i dialoghi, e in italiano la parte ferrarese e bolognese. Scenografie d’epoca perfette, costumi senza la minima sbavatura, le atmosfere del primo dopoguerra sono verosimili e le immagini di repertorio lasciano il posto alla finzione scenica senza soluzione di continuità. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2024 come film di chiusura, rappresenta la summa del cinema nero di Avati, con citazioni al suo passato, da Zeder a Le strelle nel fosso, per finire con La casa dalle finestre che ridono, che viene fuori con prepotenza in certe situazioni angoscianti vissute in solitudine dal giovane scrittore e da un finale che immortala un inquietante scambio di sguardi consapevoli. Un film da vedere al cinema per apprezzarne tutto il fascino.
Regia: Pupi Avati. Soggetto: Pupi Avati (romanzo L’orto americano, Solferino). Sceneggiatura: Pupi Avati, Tommaso Avati. Fotografia: Cesare Bastelli. Montaggio: Ivan Zuccon. Musiche: Stefano Arnaldi. Scenografia: Biagio Fersini. Regista della Seconda Unità: Mariantonia Avati. Produttori: Antonio Avati, Gianluca Curti, Riccardo Suriano. Case di Produzione: DueA Film, Minerva Pictures, Rai Cinema, Mionistero della Cultura, Emilia Romagna Film Commission. Distribuzione (Italia): 01 Distribution. Interpreti: Filippo Scotti (il giovane scrittore), Rita Tushingham (la madre di Barbara), Robert Madison (maggiore Capland), Patrizio Pelizzi (giudice della Corte d’Assise), Romano Reggiani (il pubblico ministero), Cesare Cremonini (Ugo Oste), Massimo Bonetti (il presidente della Corte d’Assise), Andrea Roncato (maresciallo dei Carabinieri), Alessandra D’Amico (perito psichiatra), Nicola Nocella (paziente psichiatrico), Claudio Botosso (medico legale), Roberto De Francesco (Emilio Zagotto), Armando De Ceccon (Glauco Zagotto), Holly Irgen (giudice popolare), Monia Pandolfi (giudice popolare), Chiara Caselli (Doris), Luca Bagnoli (cancelliere), Morena Gentile (Arianna), Filippo Velardi (Pubblico Ministero), Francesco Colombati (psichiatra).