Subito dopo la grande fama conseguita con Il Piatto Piange e la Spartizione, Piero Chiara decise di cavalcare l’onda del successo regalando un’altra storia memorabile ai suoi lettori. Mauro Novelli, uno dei critici più acuti della produzione chiariana e del quale si possono leggere delle godibili analisi che accompagnano la fresca ristampa delle opere dello scrittore lombardo, nota che, nel susseguirsi di una tecnica narrativa consolidata, il memorabile aedo lombardo decide pian piano di procedere dall’universale (così va letta la storia del Piatto Piange attraverso i racconti dei giovinastri del luinese tra le due guerre) al particulare, che si incanala verso le esperienze direttamente vissute, vere o presunte, per tramite di una storia limitatamente e interiormente umana.
Nei fatti si legge di un Anselmo Bordigoni con la testa a forma di uovo appiattito in alto, i baffi spioventi e duri come erbe di dirupo, lo sguardo ingrandito a dismisura dagli occhiali, centoquaranta chili, due metri di altezza lungo i quali si distribuiscono scalinate di carne, sacche di grasso incalcolabile ecc. Una descrizione, nota ancora Mauro Novelli, debitrice ai maestri lombardi del grottesco (Gadda in primis). L’Anselmo, dicevamo, è giunto sulle sponde del lago maggiore al seguito di tre figlie, senza un fine ben preciso, dedito a una routine consolidata e imbrigliato nelle maglie dell’oziosa città di provincia. La curiosità che cattura il lettore si scontra via via con la balordaggine di altri personaggi di contorno inseriti di sbieco (il Malfidassi, ad esempio, missionario santone che propina le sue cure taumaturgiche alle signore borghesi), e l’abituale tendenza all’inerzia del protagonista che comincia a svolgere la professione del maestro di musica nella scuola pubblica, grazie a qualche breve supplenza. Il lavoro durerà il breve spazio di qualche mese per l’imperversare del fascismo. Il nuovo governo, secondo una prassi comune a tutti i regimi dittatoriali, decise di radunare sotto la sua ala protettiva l’intera scuola pubblica per formare il fascista del domani e sottopose gli insegnanti a un giuramento, pena il licenziamento in tronco. A questo input ci si aspetterebbe una reazione di diniego fermo e reciso, invece il Bordìga, questo il soprannome dato dai suoi concittadini, rifiuta senza particolari clamori, senza esprimere il suo parere contrario, ma solo con un dissenso pacato che lo porta a un immediato allontanamento dalla scuola pubblica.
In virtù di questa scelta silente deciderà di seguire l’amico Persichetti, suonando in un complessino, dedito a feste paesane sulle sponde del Lago Maggiore. La vicinanza, sconfinata in una convivenza con l’amico, noto in paese con il soprannome di Ginetta, porterà il paese a mormorare su quella coabitazione indiscreta sino a quando l’Anselmo, considerato espressione del degrado morale del paese, sarà vittima prima dell’abbandono delle sue tre figlie e poi, più severamente, della decisione del podestà per il confino in un piccolo paesino del Cilento, Altavilla. La sua partenza aprirà un gigantesco vaso di pandora, dalla quale usciranno i torbidi miasmi covati in silenzio e pronti a deflagrare il giorno dopo la sua partenza.
La breve tirata, che non vuole assolutamente ergersi a sinossi, prende un attimo di respiro e apre una lunga parentesi. Perché il romanzo, intessuto di una storia travolgente, si sofferma su uno dei temi ricorrenti nella narrativa chiariana: la dittatura fascista. Almeno nella prime tre opere di Chiara, il fascismo, è una presenza costante e non fastidiosa. Lo scrittore, come un entomologo che adagia i suoi occhi sulla lente del microscopio, analizza con piglio scientifico i fenomeni che interessano i suoi uomini-formiche, i quali corrono freneticamente da una parte e dall’altra, scandendo i ritmi della loro vita secondo la fanfara fascista. Si troverà sovente l’espressione di fascista della prima ora, con la quale va inteso colui che rinnegata la sua fede politica e trovando nel fascismo il suo habitat naturale, trasforma la sua intera vita in conformità ai dettami del regime; poi assurgendo in breve tempo i ruoli di primo piano in paese e via via in provincia, aumenta il suo prestigio sperando in una piccola nota di merito dalla lontana e magnificente Roma: insomma un balordo per antonomasia. Vecchi tempi, ma comportamenti ormai comuni a prassi idonee persino oggigiorno, a distanza di moltissimo tempo. Chiara, da uomo di mondo, studia questa lenta trasformazione, ben prima che tali figure diventino una nostalgica rassegna di trofei impagliati; pertanto, non interessa allo scrittore capire se quel momento storico o quel determinato comportamento, così invasivo e prepotente, fu giusto o sbagliato; gli interessa notare come da quel fondo comune dalla quale aveva preso avvio il fascismo pullulante di piccoli Leopoldo Fregoli (cioè trasformisti) e che propinava il male per il bene, a sua volta, motu proprio, se ne ricreasse un altro di fondo, invisibile, ma pure solido, difficile da estirpare, contorto, e infettato di altri bacilli pronti a proliferare e generare altri trasformismi o trasformisti capaci di inghiottire voracemente il passato e orientare consapevolmente il futuro. Ma quindi il Bordigoni è un balordo o no? È balordo perché, tramortito degli eventi, li subisce? Oppure si può definire tale, perché grazie al suo silenzio riesce a eludere le maglie dell’inquadratura politica e civile?
Il confino in quella landa desolata regalerà un’altra opportunità al piccolo musicante che diventerà direttore della banda municipale. Ma anche qui, dove la calura plana sul suo corpo grasso ed emaciato del colosso, pienamente conforme al mutismo selettivo che lo accompagna, il nostro protagonista si muove in silenzio adagio adagino, riverbera la routine consolidata, il mezzo toscano dopo la colazione, la pesca, tutti momenti che ruotano attorno a un albero possente, divenuto per usucapione suo e piena trasformazione vegetale di sé. Leggiamo infatti che: «Sarebbe vano cercare chi per primo indicò il Bordigoni come “il Buon Cazzone”, ma tutti, a cominciare dal maresciallo, si trovarono d’accordo nell’estendergli un nome che ad Altavilla equivaleva a un’onorificenza e che nessuno aveva mai meritato nella lunga vicenda di un luogo sdegnato dalla Storia». Durante tale esperienza, merita di essere sottolineata la delicata presenza della musica in quanto forza rigeneratrice dell’animo umano. Le note che provengono dal pianoforte del Bordigoni si diffondono e seducono l’uditorio paesano, così colui che prima era considerato morbo, adesso, magicamente diventa cura, melodia profusa da polpastrelli delicati che armeggiano un vecchio pianoforte. Potremmo dire che il Bordigoni, non è reticente, ma parla in tutto il romanzo attraverso la sua musica ed è forse questo il colloquio ininterrotto che aumenta d’intensità, quando le spire della guerra avviluppano l’intero Cilento, che da paradiso edenico muta in un tragico teatro di guerra.
Proprio sul più bello, appunto, lo scoppio della guerra e lo sbarco a Salerno, descritti con un piglio narrativo storiografico, fanno lievemente oscillare il Bordigoni che inconsapevolmente si troverà per la prima volta protagonista assoluto, nei panni del direttore d’orchestra, della scalata verso la liberazione dell’Italia a suon di concerti e di ovazioni: passeggero della girandola della liberazione ne diventa simbolo del divertimento effimero. A quel nuovo trasformismo, non voluto né cercato, il nostro personaggio sembra estraneo, vuole solo interessarsi di musica; guida con talento bande di diverse città e le unisce in un sincretismo magico; si adatta alla tabella di marcia imposta da uno strampalato maggiore americano che gli promette un rapido successo internazionale, ma al Bordigoni interessa solo il vitto, simbolo ne siano le due tessere alimentari che porta con sé, insieme al mezzo toscano. Carmina non dant panem.
Un crudele incidente e una lunga degenza in una Milano sventrata dalla guerra, lo porteranno silenziosamente a un addio lento, quanto prevedibile, dei fasti americani. E quando quell’atmosfera di libertà si spegne, come in Polvere di Stelle dell’adorato Alberto Sordi, il Bordigoni si avvia alla stazione, paragonata al lazzaretto manzoniano, e agganciatosi a una carrozza del treno, da vero balordo, ritornerà laddove tempo addietro era stato cacciato.
Proprio nel momento in cui l’afflato narrativo sta per spegnersi, Chiara non smette di suonare la sua sinfonia e regala al lettore l’ultimo, magnifico, assolo. Così il Bordìga, appena sceso alla stazione, ritorna nel luogo del delitto (un ignoto paese del Varesotto) e subito si dirige verso quel lago tanto agognato, e soprattutto mai cancellato dai suoi ricordi che parlano nel silenzio a quelle sponde che vanno a morire sotto i barbacani del porto. E dopo il memorabile incontro con la popolazione locale, impreziosito da un latore che mette in comunicazione i due poli distanti (il reduce confinato e la cittadinanza), il Bordigoni diventerà a sua insaputa eroe conclamato e addirittura sindaco provvisorio.
Il successo sarà accompagnato da altro silenzio, che maschera un’altra balordaggine, l’ultima, priva di meschinità. La memoria tace nel popolo, non risveglia alcuna cattiveria; il passato non mormora, perché nel frattempo il gorgo oscuro, che ha trangugiato il fascismo, rimescola i vecchi sedimenti con i nuovi e tutto si assopisce a un punto tale che colui che era stato cacciato per degrado morale, diventa simbolo dell’ordine morale ed espressione di una ipotetica democrazia diretta, muovendo le fila prima che l’opra finisca. Allora forse il silenzio diventa allegoria di vita, chiave di lettura per comprendere un mondo in continua trasformazione, ma destinato a rimanere sé stesso.